È tornato Benetton. Meglio: è tornata la pubblicità di Benetton, quella pubblicità-progresso che ha alimentato i nostri sogni di stolti adolescenti quando andavamo al liceo. Si parla, quindi, degli anni Ottanta allorquando il noto marchio di abbigliamento se ne uscì con uno slogan di cui tutti magnificarono l’intelligenza e con una serie di propagande di cui tutti vantavano la creatività rivoluzionaria. Lo slogan era: United Colors of Benetton. Le foto sui muri e sui quotidiani rappresentavano giovani di tutte le etnie, e di tutti i colori, che si abbracciavano vestiti con lo stesso marchio coloratissimo, e cioè Benetton. Poi c’era anche qualche altra trovata scandalistica, tipo il prete e la suora lingua in bocca, ma concentriamoci sul succo di tutta la faccenda. In verità, quegli spot di carta non erano rivoluzionari, ma visionari e nessuno aveva capito quanto essi fossero profeticamente in anticipo sui tempi. Oggi – abbiamo detto – Benetton ci riprova con lo stesso grido di battaglia e un poster gigantesco raffigurante una scuola elementare del Giambellino, in quel di Milano. Il poster potrebbero pubblicarlo anche sulla Settimana Enigmistica in una nuova rubrica dal titolo ‘Trova l’italiano’. Infatti, in quella classe ‘italiana’ ci sono soprattutto bimbi del Senegal, del Burkina Faso, delle Filippine oltre a qualche sparuto pargolo italico che pare finito lì per caso. Qual è la morale di tutta la faccenda? C’è qualcosa di male nella bella idea di fratellanza inter-razziale e trans-nazionale di cui (apparentemente) ci parla questa campagna? Ovvio che no; chi mai, se non qualche razzista fuori tempo massimo, potrebbe negare la valenza civica positiva, la portata sociale innovativa, l’impatto politico rigenerante della trovata di Benetton? Però, andiamo un po’ più a fondo e chiediamoci: il vero intento, la filosofia trapelante in filigrana dalla clip in questione è davvero quella genericamente apprezzabile e inquadrabile in un altrettanto generico slogan ‘pace-amore-fantasia’? O non c’è, piuttosto, qualcosa di più subdolo le cui radici vanno rintracciate proprio negli anni Ottanta del Novecento e in quelle campagne di cui parlavamo in apertura? Il dubbio è legittimo. Infatti, l’idea di fondo non è veicolare la tolleranza e lo scambio interculturale, ma liquidare l’identità e il senso di appartenenza nazionale. I cartelloni di allora e la reclame di oggi, targate Benetton, non mirano a invitarci al rispetto delle altre culture; vogliono, semmai, instradarci verso una monocultura. Una, sola, monolitica in cui tutte le altre dovranno con-fondersi, liquefatte in un crogiuolo indistinto dove non c’è più l’italiano o il ghanese, il tedesco o l’indiano. Proprio come i panettoni di natale sono un impasto indifferenziato di plurimi ingredienti. E non c’è più neanche il cattolico o l’induista, il maschio o la femmina. C’è l’U.U., l’Uomo Unico, anzi l’A.U., l’Androgino Unico, dimentico di sé. L’A.U., però, è solo apparentemente più libero ed evoluto. In realtà, è intercambiabile e ha ‘una’ dimensione, quella del consumo, e del marchio che lo veicola. La vera cifra di quelle antiche pubblicità di allora non l’aveva notata nessuno; i loro protagonisti indossavano tutti lo stesso logo. Anche i cittadini del Mondo Unito Futuro ne avranno in dotazione uno soltanto. Quello della schiavitù condivisa.
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