Passata la sbornia del referendum, una botta insperata di democrazia, parliamo d’altro. C’è un aspetto della crisi greca che nessun telegiornale, nessun documentario di approfondimento, nessuna trasmissione di prima serata o di nicchia ha scandagliato, se non come un dato di folklore buono a restituire la cifra estetica del dramma ellenico. Ci riferiamo alle processioni dei cittadini di Atene davanti alle fessure del bancomat. Pertugi sempre più stitici nell’elargire mancette di carta moneta. I cronisti di turno si sono beati nel farsi riprendere dinnanzi a questa allegoria dei tempi: l’uomo medio in coda per distillare gli ultimi piccioli prima della catastrofe. Per la cronaca, ci può stare. È un modico prezzo da pagare alla semplificazione mediatica pur di essere aggiornati just in time su ciò che accade là fuori. Da questo punto di vista, la scena madre dei greci in diligente fila indiana sotto il simbolo per eccellenza della nostra era (la macchinetta metallizzata sputa soldi) è una clip strepitosa. Eppure, gli operatori dell’informazione, tutti presi dall’ansia della sintesi, dal bisogno di condensare in un cameo la strenua lotta di Tsipras contro gli occhiuti burocrati di Bruxelles, si sono limitati poi al racconto: Venghino, signori, venghino a vedere come finisce chi sgarra: tutti in fila alla sbarra (del Bancomat)! E, doppia meraviglia, questo racconto è stato digerito e accettato, quale ineluttabile vendetta degli dei o come espiazione di una colpa non emendabile, anche dalle stesse vittime del crollo: i cittadini greci. Dov’è la stranezza, in fondo? C’è la crisi, la Grecia è sull’orlo del default, quindi mancano i soldi, ergo ci lesinano i bigliettoni. Tutto logico e giusto? No, tutto assurdo e sbagliato, e il fatto che i cantastorie dell’Evo Competitivo non abbiano avuto nulla da eccepire per i reiterati episodi di razionamento della grana e che l’uomo comune abbia finito per interpretare la parte del mazziato in commedia ci dà il senso autentico della tragedia. E ci conduce a una dolorosa constatazione: la massa (rispetto a determinati argomenti) è lobotomizzata e neppure la Grande Stampa, deputata a farne impennare l’encefalogramma piatto, risponde più agli stimoli. Dopotutto, basterebbe un conato puerile per sgamare la fregnaccia: che c’entra la crisi con l’impossibilità di ritirare soldi tuoi da chi li aveva in mero deposito? I cittadini che implorano contanti non sono dei mutuatari bisognosi di proroghe delle rate in scadenza. È gente che chiede la resa di soldi di sua proprietà che la banca ha semplicemente ‘in conto deposito’, cioè in custodia. Eppure, il medioman non solleva obiezioni. Quasi fosse normale che il detentore di altrui sostanze le misuri col contagocce. E questo accade nell’ignavia dei più. Un’autentica appropriazione indebita legalizzata, alla luce del sole, non provoca reazioni di sorta se non quelle volte a titillare la curiosità dello spettatore. Della serie: spiate la crisi dal buco della serratura per vedere come lo fanno in Grecia (il fallimento)! E i tigì di punta aprono le edizioni delle Venti annunciando che la nuova soglia di prelievo quotidiano è di venti euro, punto a capo. Quando un’azienda privata, pagata lautamente da qualcuno per conservargli i quattrini, si sottrae ai suoi obblighi, di solito aprono i Tribunali. È pane per avvocati. Invece, nel caso di specie, manco si apre il dibattito. Una parte di me si rifiuta di crederci. Ci sarà pure un vecchio greco sveglio e tignoso e sfrontato abbastanza da urlare: “Ma sono soldi miei, ve li avevo dati in custodia, dove li avete messi, cazzo!”. Forse c’è ma non si vede, di sicuro non l’hanno intervistato. Un’altra parte di me (quella più aggiornata) ha la risposta pronta: c’è la crisi, pirla, e con la crisi i soldi scottano ed evaporano come l’acqua bollente. Forse è vero, o forse il mondo sta impazzendo. Siamo da ricovero e finiremo tutti in coda al bancomatti.
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