Ci sono termini, modi di dire, luoghi comuni ‘virtuosi’ e altri, invece, ‘viziosi’. I primi evocano uno stato d’animo funzionale a ciò che il Sistema considera desiderabile, auspicabile e ‘giusto’. Di essi è incoraggiato l’utilizzo ossessivo, alla stregua di ‘password’ (parole d’ordine) che ci rendono individui presentabili, integrati e ‘per bene’. I secondi sollecitano un’emozione repulsiva verso ciò che lo stesso Sistema reputa minaccioso per la propria sopravvivenza.
Essi vengono, di conseguenza, impiegati per ‘bollare’ coloro che remano controcorrente e adottano comportamenti riprovevoli o affermano idee e principi nocivi. Esempi pratici. Dire ‘europeista’, ‘ce lo chiede l’Europa’, ‘bisogna attendere il responso dei mercati’ significa pronunciare motti e verdetti moralmente, forse addirittura ‘religiosamente’ (prima ancora che politicamente) corretti. Proprio perché l’Europa, per il Sistema politico-economico oggi dominante, è l’equivalente della Madonna nell’immaginario cristiano, il conformarci ai suoi diktat è un tributo dovuto a Nostra Signora e i Mercati sono i novelli Santi da calendario. Per contro, chi osa mettere in discussione (dati, cifre, fatti e vicende di cronaca alla mano) questi termini ‘virtuosi’, viene aggredito da anticorpi brevettati sotto forma di aggettivi come ‘populista’ o ‘euroscettico’. Chi prova a spendersi in ragionamenti meditati o in argomentazioni persuasive volte a minare le menzogne di cui il Sistema si nutre è destinato alla berlina. Il pensiero autonomo e indipendente è aborrito in un contesto che predilige, non a caso, la comunicazione sincopata di sms e messenger o il cinguettio ‘coatto’ di twitter che ci obbliga a dir tutto (cioè nulla) con quaranta caratteri. Come nel mondo immaginario di ‘1984’, la lotta si sposta dal piano dei contenuti a quello della semantica. Ecco la Neolingua, composta di lemmi ripetuti fino alla nausea col solo scopo di evocare le sensazioni ‘giuste’ (cioè volute dal Sistema e ad esso care) in chi le ascolta. Non servono violenza né armi per ottenere il consenso. Si carica una parola (vuota) di sufficiente discredito per usarla poi come un kalashnikov contro i reprobi. Oggi, per tappare la bocca a un eccentrico, basta tacciarlo di ‘populismo’. Pochi saprebbero definire con esattezza il populismo, ma tutti sanno benissimo che è qualcosa di sbagliato, distorto e infido. E tanto basta. Il processo che abbiamo descritto ha un’ulteriore, affascinante applicazione: un fatto, o un soggetto, vengono improvvisamente ‘definiti’ con una parola nuova, cioè diversa da quella fino ad allora utilizzata per designarlo. Ciò accade quando il Sistema ha bisogno che la reazione viscerale della massa nei confronti di quel preciso fenomeno, cambi di direzione e intensità. Nota bene: l’oggetto della verbalizzazione non muta, resta il medesimo, come se un identico animale fosse designato prima come ‘cane’ e poi, di punto in bianco, come ‘ratto’ (della serie ‘ci siamo sbagliati, non era un piccolo cocker da compagnia, ma una pericolosa specie di topo mutante’). Ebbene, se si inverte il segno con cui si designa la ‘cosa’, si capovolge l’atteggiamento collettivo verso di essa. Se quell’animale non è un cane, ma un ratto, nessuno più lo comprerà per portarselo a casa e riempirlo di coccole o dolcetti. Preferirà confinarlo nelle fogne e servirgli bocconi avvelenati. Il percorso può essere anche inverso (da una cattiva definizione a una buona), ma la sostanza non cambia: le parole imposte dal Sistema creano la realtà che noi vediamo e determinano i sentimenti che noi ‘dobbiamo’ provare. Pensiamo al fatto della produzione continua e ossessiva di merci e di beni finalizzata all’acquisto seriale di prodotti, costantemente innovati, da parte degli utenti del mercato. In questa asettica definizione possiamo riconoscere le coordinate del sistema capitalistico, la sua stessa cifra. Solo che, fino a qualche anno fa, quando l’economia, bene o male, tirava, questo ‘fatto’ era contrassegnato come ‘consumismo’: una deriva deteriore, un frutto avariato, un danno collaterale, per così dire, di un fenomeno in sé buono, qual era il capitalismo. Il Sistema consentiva di biasimare il ‘consumismo’ e dava fiato alle trombe della connessa retorica pauperista perché la locomotiva marciava a pieno regime. I maggiori interpreti di questa hit alla moda erano le tradizioni comuniste e cattoliche di sinistra. Oggi che il vento è cambiato e che il Sistema ha il terrore che la macchina possa incepparsi per sempre, di consumismo non si parla più. Si parla di ‘crescita’ che è la stessa identica cosa. Cioè bisogna consumare a più non posso per aumentare il pil, altrimenti il Sistema collassa su se stesso. Così l’ex comunista Napolitano celebra la ‘crescita’. In altre parole (con ‘altre’ parole, benedette dal Sistema) invita gli originari ‘compagni’ a fare ciò che la sua antica ideologia di riferimento ha sempre esecrato. Il cattolico Letta sollecita la ‘crescita’. In altri termini (con ‘altri’ termini approvati dal Sistema) esorta i ‘fratelli’ di fede a compiere il peccato che la sua atavica matrice di valori ha in passato biasimato. La contraddizione è solo apparente, perche entrambi sono parte di quel Sistema che hanno, illo tempore, fittiziamente combattuto o criticato. Crescita, crescita, crescita! Pensate in quante salse o con quale enfasi questa nuova parola è pompata a tutto volume dai ripetitori del sistema. E i ripetitori possono essere una tv o un giornale, ma anche un Capo dello Stato o un Presidente del Consiglio. Essendo meri ripetitori non fanno altro che ‘ripeterci’ lo stesso slogan, quello più funzionale alle esigenze contingenti del Sistema. Oggi quel mantra suona così: ‘Consumate, mangiate, comprate e sprecate!’. Un inno al consumismo, null’altro. Solo che ‘dirlo’, ‘narrarlo’ con un termine diverso cambia tutto. E’ la forma che si fa sostanza. Quindi il consumismo è cattivo, mentre la crescita è buona. E’ incoraggiata. Anzi, è addirittura imposta, perché altrimenti il Sistema muore. Sorge solo un dubbio atroce. E se non fosse il Sistema ad essere afflitto da un bug, ma fosse il Sistema stesso il bug? Il modello del turbo capitalismo che ci ha portato agli approdi attuali impone una crescita indefinita, fondata sull’indebitamento progressivo, esponenziale, geometrico di privati, famiglie e imprese. Il che significa ipotecare fette di futuro via via più lontane e consistenti per puntellare le palafitte di un presente sempre più fragile e precario. Forse è giunto il momento di guardare in faccia la realtà e di finirla di raccontarci favole. L’Occidente, da oltre un quarantennio, è afflitto da un male che non vogliamo ammettere e che si chiama sovrapproduzione. Abbiamo messo in piedi una ‘macchina’ che sforna (grazie a un forsennato progresso tecnologico) beni in una quantità abnorme (detta, non a caso, ‘industriale’) che poi non riesce a smaltire. E se lo fa è solo a prezzo del famoso credito al consumo e dell’indebitamento incontrollato delle masse. Siccome il dogma economico di cui è imbevuto il Sistema (che è poi la stella polare sia dei cattolici progressisti alla Letta sia dei comunisti redenti alla Napolitano) pretende la crescita, i mercati (che del Sistema sono, al contempo, il nume ispiratore e la longa manus) drogano il pil col trucco dell’indebitamento indefinito. E’ ora di capire che il problema non è la ‘crescita’, ma un Sistema che la esige, come un bambino capriccioso, o come la famosa rana di Fedro in procinto di scoppiare. Viviamo in un mondo di risorse limitate, ma lo stiamo prosciugando nel nome della ‘crescita’ che non è altro che il vetusto ‘consumismo’ riverniciato di fresco. Stiamo tirando il collo al pianeta pur di gonfiare il prodotto interno lordo. I nostri leader, anziché individuare nuove vie o soluzioni diverse, ci invitano alla crescita, cioè a riprendere a ingozzarci di cose superflue e inutili per salvaguardare il denominatore di una frazione (il famoso rapporto deficit/pil)! Magari è semplicemente ora di fermarci e di riflettere, smettendola di farci manipolare dalle password della Matrix in cui siamo intrappolati. La ‘crescita’ è una delle più insidiose. Liberiamoci da questa ossessione prima che sia troppo tardi.
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