Sul fenomeno ‘blue whale’ bisogna pur scrivere. In soldoni, ci sono dei poveri adolescenti, adescati da criminali, i quali si marchiano col simbolo di una balenottera e poi si fanno condurre da un fuoco di fila di sfide (per lo più banali ma efficaci misure di manipolazione psichica) fino a quella suicida da consumarsi buttandosi da un palazzo. Ora, premesso che i giovani attuali sono molto più intelligenti di quanto lo fossimo noi alla loro età, premesso che in quinta elementare hanno mandato a memoria tante nozioni quante noi, forse, ne masticavamo a stento al liceo e che la maturità di allora oggi farebbe ridere: meno materie, meno programmi, meno voti anche – forse non a caso il mitico ‘sessanta’ (la chimera delle secchie di quel bel dì) equivale all’attuale sufficienza mentre gli odierni top gun dello studio arrivano a cento –, premesso che questi qua, alle soglie dei vent’anni, parlano fluentemente l’inglese e hanno fatto il giro delle sette capitali europee e a ventitré danno la laurea e iniziano un percorso di masters e di stages più fico e più lungo che mai, premesso che sono super social, loro (mai stati social, noi, semmai asociali a intermittenza) e hanno instagram, facebook, twitter, what’s up e sono fenomeni della realtà aumentata mentre noi ci sentivamo sistematicamente diminuiti e inadatti davanti a quella vera. Insomma, premesso questo mea culpa sincerissimo e doloroso, sintomo postumo di una minorità evidente delle nostre teste, dei nostri corpi, delle nostre asfittiche esperienze provinciali rispetto al macrocosmo Global et Erasmus dei nostri pari età due punto eccetera, però però… Però, pensateci, c’è un dettaglio a far la differenza e a farci preferire il nostro piccolo mondo antico di bici e figurine, di gettoni e patronati. E quel dettaglio è tutto racchiuso in una domanda, la domanda finale, ultimativa, dirimente. Quella in grado di trattenerci dall’oltrepassare la soglia dello sclero e di riportarci di qua da essa per ri-ancorarci al mondo. Ce la ponevano, con aria di compatimento, i padri e i nonni e gli zii e certi stronzissimi professori e tutti i mentori e adulti dai quali fummo svezzati e cresciuti (anche) a suon di sberle sul muso (che oggi, se ci provano, si beccano una denuncia a piede libero). Bene, il test arrivava giusto quando rischiavamo di finire vittime di qualche canagliesca compagnia o della scempiaggine masochistica dell’età. E l’interrogativo, a bruciapelo, suonava più o meno così: “Ma sei deficiente? Mai hai la segatura nel cervello? Ma se quell’imbecille ti dice di buttarti da un ponte, tu ti ci butti?”. Ecco, messi alle strette, tutti (e dico tutti) rispondevamo: “No, non mi butto”. Perché eravamo cretini, ma non ‘così’ cretini. Non tanto da buttarci in canale su ordinazione. Ora non funziona più, a quanto pare. Nel terzo millennio, tra i talentuosi pargoli della civiltà digitale, ce n’è una parte (irrisoria, per fortuna, ma c’è) che – al medesimo quesito – risponde di sì. Quando si dice: la differenza che fa la differenza. E ci sia permesso di sussurrarlo con immensa nostalgia.
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