L’altro giorno ero con un amico e guardavo la tivù mentre mandavano un servizio sui lavori dello State of the Union (una indecorosa americanata paneuropeista) e lui si è toccato le parti basse. La circostanza mi ha colpito ma, sul momento, non gliene ho chiesto la ragione. Però mi veniva di dargliela, la ragione: le analisi sofisticate non servono più perché gli europeisti o sono troppo smaliziati e in malafede per prestarvi ascolto o sono troppo stupidi per intenderle. Poi ci ho ripensato, a quel gesto, e mi sono documentato: pare che esso discenda dagli antichi romani che erano soliti sfregare il fallo delle statuette di Priapo, simbolo di fertilità e buona sorte. Quindi ho riflettuto: perché l’amico si è toccato sentendo menzionare la UE? Un dubbio atroce mi ha colto: e se l’Europa Unita portasse sfiga? Dopotutto, sono ormai undici anni che il Trattato di Lisbona ne ha sancito la nascita ufficiale. Per un caso bizzarro – guarda te che buffo – l’Europa Unita sorge in corrispondenza dell’abbrivio della Grande Crisi. Non è che la UE porta jella? Così, ho finito per immaginare la reazione di quanti hanno ascoltato il discorso di Draghi in occasione del ‘The State of the Union’. Avete capito bene: lo ‘Stato dell’Unione’, scritto ovviamente in inglese perché l’italiano è lingua populista. Draghi dice: “Le riforme strutturali a livello nazionale restano una priorità”; al che si toccano di brutto i gioielli di famiglia gli esodati, i pensionati, i giovani precari memori del significato ormai noto della parola “riforme”, soprattutto se coniugata all’aggettivo “strutturali”. Poi Draghi sentenzia: “Gli europei conoscono e hanno fiducia nell’euro, ma si aspettano che la moneta unica porti la stabilità e la prosperità promessa”; al che si toccano, là sotto, i pochi europei non ancora ‘toccati’, a martellate sui maroni, dai nefasti effetti prodotti dall’ingresso nell’euro. Infine, Draghi pontifica: “Il nostro dovere di policymakers è di ripagare la loro fiducia e completare le aree della nostra Unione che sappiamo essere incomplete”; e qua si toccano gli zebedei gli abitanti delle ‘aree’ comunitarie non ancora ‘disciplinate’ da qualche delirante regolamento o direttiva dei Commissari di Bruxelles. A pensarci bene, però, quest’idea di ‘toccarsi’ – cioè di manifestare in maniera sfacciata il proprio disgusto nei confronti del ‘mostro’ chiamato Unione per tenerlo scaramanticamente a distanza – come si faceva un tempo con i gatti neri, con gli specchi rotti, con le scale al muro, potrebbe essere rivoluzionario. Diffondiamo l’abitudine e applichiamola ogni qualvolta qualcuno se ne esce con i pipponi retorici sull’Europa. Non più parole, ma solo cenni. Magari non una toccatina – se vi sembra triviale – ma qualcosa di analogo (tipo le corna alla Totò accompagnate da un bel: tiè). Ciò consentirebbe di innescare un circuito virtuoso di vigorosi stati d’animo antagonisti. Una forma beffardamente pop, uno sberleffo virale, per liquidare la sfiga. A quelli che se gli tocchi l’Europa s’incazzano, rispondiamo – quando incensano l’Europa – toccandoci.
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