L’astronauta italiana Samantha Cristoforetti ha pronunciato delle parole molto, molto interessanti, forse a commento del problematico approdo della sonda Schiapparelli su Marte e comunque a proposito della possibilità per l’uomo di approdare, un bel dì, sul pianeta rosso: “Se possiamo arrivarci, perché no?”. La frase – che ovviamente ha un suo significato positivo, pedagogico ed esemplare (il progresso umano, la voglia di migliorarsi sempre, eccetera eccetera) – è però sintomatica pure di un sottotesto assai più profondo e problematico di quanto, a prima vista, potrebbe sembrare. Certo, è la classica battuta che uno come Renzi si giocherebbe al termine dei comizi per sintetizzare, da par suo, la risoluta cocciutaggine dell’uomo pioniere inesorabilmente proiettato oltre la frontiera che verrà. E tuttavia la Cristoforetti, con il quesito, ci induce a riflessioni assai più complesse, o meno banali. La sua domanda è retorica e, presa d’acchito, parrebbe sollecitare una sola risposta: dobbiamo andarci, su Marte, perché possiamo andarci. In ciò la sintesi di due millenni di storia del pensiero occidentale. L’uomo europeo nasce evocando la potenza della propria razionalità applicata allo studio della natura, all’analisi dei fenomeni e al dominio sui medesimi grazie al compiuto dispiegarsi della tecnica. La theoria dei presocratici e poi di Aristotele, la loro implacabile volontà di violare i meccanismi non palesi del reale – aldilà dei veli mitologici – è stata l’apripista della poiesis che ha condotto alla techne e poi al modello scientifico galileiano e poi newtoniano e poi einsteniano ai loro prodigiosi sviluppi coevi. In definitiva, si potrebbe affermare che la missione Exomars e il robot cibernetico Schiapparelli costituiscono il sasso rispetto al quale Aristotele e il pensiero greco rappresentano la fionda. E la domanda della Cristoforetti sintetizza, con sublime precisione, la filosofia sottesa al lancio, anzi ai due millenni trascorsi da allora: se si può andare su Marte, allora perché non farlo? È questa mentalità ad aver propiziato tutte le meraviglie da cui siamo circondati: sviluppo tecnologico, conquiste scientifiche, miracoli nella medicina, nella ricerca, nell’ingegneria, nell’elettronica e nell’informatica. Eppure, il dilemma della Cristoforetti rivela un capovolgimento dei presupposti da cui il pensiero degli antichi era scaturito: dall’esigenza di un soggetto desideroso di dominare il mondo allo smarrimento di quello stesso soggetto (e della sua capacità di dotarsi di un senso) nel mondo. Gli esiti della filosofia tardo novecentesca (dallo strutturalismo al post modernismo) portano esattamente in quella direzione: la dissoluzione dell’individuo, la sua piena disponibilità a divenire oggetto di qualsiasi avventura. Siamo cose disponibili per la intraprendenza tecnica dei mercati (cioè merci noi stessi), per quella dei viaggi interspaziali (cioè sonde noi stessi), per quella della medicina (cioè prossimi cloni di noi stessi). In definitiva, come preconizzava Edmund Husserl nel suo saggio su ‘La crisi delle scienze europee’: “Nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino; i problemi del senso o del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso”.
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