C’è un autore della filosofia del Novecento generalmente relegato in poche righe nei manuali di storia del pensiero forse perché meno affascinante degli altri, o forse perché ‘troppo’ affascinante rispetto agli altri. Si chiama Paul Feyerabend e le sue idee andrebbero rispolverate al più presto, i suoi concetti tirati a lucido, la sua disincantata e provocatoria denuncia messa in piena luce a beneficio delle nuove generazioni. Lo esigono i tempi grami che ci toccano in sorte e se ne gioverebbero soprattutto le micro-testine avvitate sul capo di tanti politici ed opinionisti contemporanei i quali si ostinano a parlare di scienza, a prescrivere vaccini, a disquisire di ‘certezza’ e ‘verità’ senza sapere nemmeno di cosa stanno parlando. Per farla breve, Feyerabend appartiene a quella schiera di filosofi i quali si occuparono di un settore ben preciso della riflessione metafisica: lo studio del modo di procedere del sapere scientifico, dei suoi criteri di praticabilità e della legittimazione delle sue affermazioni. Si chiama ‘epistemologia’, ma la grossa parola non deve spaventare perché sottende domande semplicissime, elementari proprio, come tutti i veri quesiti ultimi del cogitare umano: quali sono i limiti del metodo scientifico? Può esso avere pretese di verità? È infallibile o fallibile? Verificabile o falsificabile? Fino a che punto e a che condizioni possiamo farci influenzare la vita dall’approccio scientista? Quanto potere e quanta riverenza dobbiamo alla scienza e agli scienziati? A queste e a molte altre domande, tentarono di dare una risposta menti geniali come quelle di Karl Popper, di Thomas Kuhn, di Imre Lakatos. E di Paul Feyerabened. Ma Feyerabend era speciale, credetemi. Lui scrisse un capolavoro dal titolo ‘Contro il metodo’ con il quale volle dimostrare quanto fragile fosse la mitologica equivalenza tra scienza e verità. Secondo il nostro, la scienza non procede attraverso un metodo rigoroso e inattaccabile, ma semmai ‘nonostante’ esso. La scienza è indefinibile per definizione, è un affastellarsi continuo di teorie, di ipotesi, di convinzioni che sono molto più vacillanti e molto meno granitiche di quanto ci vorrebbero far credere. Non solo: il tanto declamato progresso scientifico spesso è merito di soggetti avversati dalla cultura ufficiale, di ricercatori eccentrici, di pazzi spericolati in grado di sfidare i paradigmi dominanti (pensate solo a quanto temerari furono Galileo Galilei e Giordano Bruno nei confronti del modello eliocentrico la cui messa in discussione significava morte certa o carcere a vita). Insomma, per Feyerabend bisogna democratizzare la scienza, strappare agli scienziati la prosopopea di cui si ammantano, svelare a loro e a noi stessi l’inconsistenza di certe pretese egemoniche sull’esistenza e sulla salute dei cittadini, smetterla di credere vi sia un nuovo dogma inscalfibile (tipo quello atavico di quando il pontefice parlava ‘ex cathedra’). Ne va della nostra libertà di pensiero e di parola. La sedicente, e seducente, scienza e il positivismo imbastardito del ventunesimo secolo si apprestano a vendere l’anima al diavolo per mandare al diavolo la democrazia. Peccato che quell’anima non sia la loro, ma la nostra.
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