Continuiamo a pensare che, oggidì, ci sia molto più bisogno di filosofia che di economia. Ma l’economia è una scienza – obbietterà il pragmatico irriducibile e refrattario ai voli pindarici – e aggiungerà: essa governa le cose. Può darsi, anzi sicuramente è vero. La storia umana non ha mai conosciuto un’epoca più economicistica, o economo-centrica, di quella attuale. Ogni mattina, da migliaia di schermi, i nuovi pontefici massimi annusano gli umori dell’avvenire decifrando i sussulti degli indici di borsa, proprio come – tra gli etruschi e i romani – gli aruspici indovinavano il futuro dalle viscere di pecora. E tuttavia, gli economisti sono la classe intellettuale più sputtanata dell’universo per quante previsioni hanno sbagliato e per quanti modelli hanno toppato, tarandoli più sulle loro convinzioni di come il mondo dovrebbe andare che non sull’osservazione di come il mondo effettivamente va. Allora viriamo sulla filosofia che non serve a niente, in apparenza. Non a caso, gli anchor man dei telegiornali mattutini mica ti svegliano con un ragionamento metafisico, ma semmai con la imperdibile notizia di un ruttino del fuzzymib o di una scoreggina del Dow Jones. Nondimeno, un sano ritorno alle radici del pensiero occidentale potrebbe servire davvero proprio ai soloni dell’economia. In particolare, a quelli che si ostinano a sostenere che l’ingresso nell’euro era l’unica delle strade praticabili per il nostro paese, che la permanenza nell’euro è il migliore dei mondi possibili e che l’uscita dal medesimo è come la strada verso l’inferno: lastricata di buona intenzione, ma con capolinea la dannazione. Ecco, se questi signori avessero masticato un po’ di filosofia – di storia della filosofia – si accorgerebbero di quanto il loro approccio allo studio dei fenomeni sia inquinato da una deriva ‘idealistica’ e di quanto esso avrebbe bisogno di un rinvigorente bagno di ‘new realism’. L’idealismo è uno degli ultimi approdi della filosofia occidentale e coincide, grossomodo, con la tesi secondo cui non esiste una vera realtà lì fuori, un mondo delle cose distinto da noi che continua a esistere senza di noi e che è esistito prima di noi ed esisterà dopo di noi. Esiste solo la dimensione del pensiero ed è nella dimensione del pensiero che le cose vivono e si manifestano. Il post-modernismo di fine Novecento sostiene che ‘non ci sono fatti, ma solo interpretazioni’. Molti degli economisti attuali, a loro insaputa, sembrano vittime di una sindrome analoga che, però – sottratta alla sua naturale scaturigine metafisica e alla sua cornice elettivamente filosofica – si tramuta in una patologia gravosa di nefasti effetti: essi non credono più alla realtà perché la realtà la creano. La realtà è un sottoprodotto delle loro alchimie cerebrali. Così sbattono il naso contro il vetro dei fatti e continuano a sbatterlo e a sbatterlo e a sbatterlo ostinandosi ad affermare che il vetro non esiste. Se la realtà è nel pensiero e la realtà non si adegua al pensiero allora c’è qualcosa che non va nella realtà, non nel loro ‘puro’ pensiero. Il ‘new realism’, una delle più recenti e note declinazioni della filosofia contemporanea, con il suo recupero del dato di realtà dopo l’ubriacatura idealistica, potrebbe rappresentare un salutare shock come la pillola rossa di Matrix. La prendessero
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