C’è un effetto collaterale, nella triste vicenda del CSM e delle trame emerse per via di intercettazione, di cui bisogna pur occuparsi. Anche a costo di passare per garantisti pelosi. Non è un discorso nuovo, intendiamoci, ma si può tentare di rifarlo con un “nuovo” approccio. Ci riferiamo all’uso dei trojan, inseriti tramite un’apposita app, nei cellulari dei soggetti indagati. Si tratta di un malware, una spia se preferite, incistato nei telefonini altrui per ricavarne intercettazioni ambientali. A cui si aggiungono le frasi carpite usando i semplici registratori vocali degli smartphone e quelle registrate, per curiosità, diletto o precauzione dai privati quando comunicano fra loro. Quindi, oggi non ci confrontiamo più solo con lo strumento classico degli origliamenti telefonici per via giudiziaria, su cui è stata costruita ogni indagine, più o meno seria, degli ultimi trent’anni, a cominciare da Tangentopoli. Siamo letteralmente immersi in un campo vibrazionale deputato ad ascoltarci, dalla mattina alla sera, senza tregua e senza posa.
Tutti ascoltano e registrano tutti: i magistrati lo fanno con gli indagati, poi lo fanno gli uni contro gli altri, mentre gli altri – soggetti privati o pubblici (più o meno segreti) – lo fanno a loro volta nei confronti di chiunque capiti a tiro di un microfono indiscreto: cioè di tutti. Non è più neppure una questione di “Stato di polizia”. Oggi viviamo in una “Civiltà di polizia” in cui il primo pirla, men che ferrato in software e affini, può registrarti con il più sfigato cellulare mentre ci parli vis a vis, o al telefono. È venuta meno persino quell’elementare autodifesa, peraltro scomoda, di togliere la batteria all’apparecchio. Senza contare il rischio di essere intercettati e registrati “per sbaglio” semplicemente mentre si è in occasionale contatto con qualcuno che, a sua volta, è intercettato. A questo punto, andiamo al sodo. Qual è il frusto luogo comune con cui l’integerrimo giustizialista sfida chi osa palesare un senso di disagio davanti a questo “grande orecchio” orwelliano aggiuntosi al grande e proverbiale occhio delle telecamere installate in ogni dove? Egli ti sussurra: dov’è il problema, se non hai nulla da nascondere? E sapete qual è la risposta giusta? Che abbiamo – tutti, indistintamente, nessuno escluso – tantissimo da nascondere. Una enormità di cose fatte e non dette, o dette a bassa voce, o masticate a mezza bocca o soffocate in un ghigno, di piccoli errori inemendabili e di minute colpe inconfessate, di opinioni e sarcasmi e pareri “indicibili” nella buona e “corretta” società.
E tutte quelle cose insieme, assolutamente legali e prive di rilievo penale alcuno, si chiamano “vita”. Anzi, per dir meglio, “vita intima”: il tessuto, magari greve e certo sostanzioso, di tutte le micro-minchiate dette e fatte, quando siamo da soli con noi stessi o quando crediamo di essere da soli con qualcun altro. E invece c’è un intero palazzetto dello sport che, non visto, ci ascolta. Forse è una battaglia già perduta, questa, ma val la pena pensarci e parlarne e sensibilizzarci a vicenda. E introiettare l’antidoto di una consapevolezza, avversaria di ogni totalitarismo e di ogni Matrice: abbiamo tutti qualcosa da nascondere e abbiamo tutto il diritto di nasconderla. Allo stesso modo in cui – e per lo stesso motivo per cui – ci vestiamo quando andiamo a lavorare o in giro per il mondo: occultiamo le nostre nudità perché proteggiamo la nostra intimità. Ciò che abbiamo da nascondere (perché ci rende vulnerabili), ciò che “riusciamo” a nascondere, è l’ultimo baluardo della nostra residua libertà.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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