Siamo alla stretta finale. Il Governo ha annunciato di voler pigiare il piede sull’acceleratore in materia di privatizzazioni. Il che significa mettere in vendita i residui gioielli nazionali, aziende belle grosse e molto ricche (Snam, Eni, Finmeccanica etc.) da dare in pasto ai cosiddetti privati. La motivazione è la solita, demente, che ci vendono come verità rivelata da almeno trent’anni: abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, ci siamo indebitati come un qualsiasi figliol prodigo propenso allo sperpero e ora dobbiamo tirare la cinghia e svendere i mobili di casa per ripagare chi ha mantenuto la bella vita che non potevamo permetterci. A ben pensarci, fosse vero, non ci sarebbe nulla da eccepire. E benché sia falso, nessuno ci trova, comunque, alcunché da eccepire. La spiegazione menzognera tiene e i media, coltivatori diretti del pensiero della massa, certificano la sua logica e additano nella casta ladra e corrotta la colpevole del misfatto, mentre la massa, addomesticata allo sputo telecomandato, sputa sulla casta. Ergo, i privati beneficiari dei saldi dell’oro della patria, dietro le quinte, si fregano le mani soddisfatti perché non solo i derubati accettano la soluzione, ma addirittura la invocano. Per capire i motivi del paradosso, urgono due operazioni demistificanti: una di carattere storico (riguardante la realtà dei fatti) e una di carattere semantico (riguardante il senso delle parole). Partiamo dalla prima. La favola dello Stato spendaccione indebitatosi per insipienza dissipatrice e quindi costretto a spogliarsi dei propri beni per pagarsi l’affitto è tarocca quanto una banconota da trecento. La spesa pubblica italiana è cresciuta di undici punti (dal 30,1% al 40,6%) dal 1960 al 1980 arrivando alle soglie del 55% per poi calare e rimanere sotto il 50% fino a tutto il 2009; essa si è mantenuta sotto la media europea fino a metà degli anni ottanta e poi, più o meno, in linea. Quanto alle virtù pubbliche di gestione, la differenza tra entrate fiscali e spese (al netto degli interessi sul debito), dal 1995 al 2014, ha registrato un utile (dicesi avanzo primario) diciannove volte su venti, mentre le altre principali economie europee andavano in deficit, nello stesso periodo, almeno sette volte. L’Italia era, nella vituperata seconda repubblica teatro di tutte le nequizie, la quinta potenza industriale del mondo e aveva, nel 1982, quando Rossi abbatteva i crucchi al Bernabeu di Madrid, un rapporto debito/pil sotto il 60% (e senza i maledetti parametri di Maastricht). Quanto al debito pubblico, qualunque economista di media cultura sa che esso schizza dal 1981 al 1994 non tanto per un aumento della spesa, quanto piuttosto e soprattutto perché Andreatta e Ciampi, nel 1981, benedicono il funesto divorzio tra Ministero del Tesoro e Bankitalia. Veniamo ora alla seconda operazione, quella semantica. Essa ha a che fare con la parola da cui deriva il termine privatizzazione e cioè privato, declinabile in due forme: quella di sostantivo e quella di aggettivo. Privato non è solo un lemma importante per decifrare il mondo in cui viviamo. È, addirittura, la sua quintessenza, l’anima dura e pura della civiltà globalizzata e dell’Evo Competitivo. Privato, inteso come sostantivo, designa l’attuale dimensione dominante, ad ogni livello: sociale, economico, culturale e quindi politico. Privato è il coacervo di risorse non pubbliche, coagulantisi perlopiù, ma non solo, nelle centrali oligopolistiche della finanza transnazionale che detta l’agenda politica anche agli stati sedicenti sovrani e apparentemente pubblici e democratici. Non a caso, oggi il politico non ruba più dalla cassa pubblica risorse per sé. Piuttosto, egli deruba della cassa pubblica la cittadinanza di cui è nominato rappresentante. In una democrazia autentica e matura, i politici rispondono ai cittadini, da cui derivano la propria legittimazione. Nella democrazia privatistica di questi tempi, i politici derivano la propria legittimazione dal privato (come sopra inteso) e quindi ad esso fanno rapporto. In primis, per la sopravvivenza dello Stato (che i politici investiti di cariche pubbliche incarnano), donde la questua sui mercati per elemosinare prestiti a tassi da paura e anche l’esigenza di compiacere in ogni modo i capibastone privati per attrarne gli investimenti. Lo stesso denaro non è più una risorsa esclusiva del potere pubblico gestita ed erogata in regime di monopolio a buon pro del popolo. Al contrario, anche la moneta è stata privatizzata, viene distillata e centellinata altrove, da istituzioni pubbliche di nome (banca centrale europea, banca d’Italia) e private di fatto che hanno il compito di fungere da stanza di compensazione delle voglie dei Paperoni del globo. Così si spiega tutta una serie di fatterelli piccoli e grandi degli ultimi tempi (tanto per stare alla cronaca spicciola): il Partito Democratico che si astiene sul referendum contro le trivelle (cioè contro il prepotere dei petrolieri), Romano Prodi che dichiara di votare no a quel referendum perché ridurre le agevolazioni ai petrolieri sarebbe un suicidio per il Paese, il sindaco di Firenze che allestisce un Gran Consiglio di manager delle multinazionali operanti nel territorio fiorentino al fine di suscitare l’interesse di investitori esteri, lo Stato che concede ventiquattro milioni a fondo perduto allo sceicco Amed bin Ahmed al Ahmed per la ristrutturazione di un hotel di lusso in Sicilia, il parlamento che licenzia a ogni piè sospinto leggi ad bancam. Sono solo esempi. A spulciare la cronaca quotidiana se ne troverebbero decine di altri. Occupiamoci ora del privato inteso come aggettivo. Esso sta a qualificare il soggetto cui viene tolto qualcosa e, nel nostro discorso, quel soggetto è il popolo e quel qualcosa è l’insieme dei diritti civili e politici e delle agenzie di rappresentanza democratica. In questo senso vanno letti l’Italicum, l’abolizione del bicameralismo, la soppressione delle province e la stessa struttura istituzionale e i conseguenti meccanismi di produzione normativa (chi fa le leggi che noi subiamo) dell’Unione Europea. Al netto della retorica della semplificazione burocratica e dello snellimento dei centri del potere pubblico, tutte le riforme degli ultimi anni e l’intero apparato strutturale della Ue vanno in un’unica direzione: privare i cittadini delle leve del comando, bandirli dalle stanze dei bottoni, impedire che possano interessarsi davvero dei (e ancor meno incidere sui) processi attraverso i quali le cose un tempo comuni vengono regolamentate e gestite. È inevitabile perché il privato (sostantivo) si è mangiato il terreno su cui riposava il concetto stesso di democrazia rappresentativa e cioè l’esistenza di beni e risorse, sia mobili che immobili, sia liquide che solide, di pertinenza collettiva. Quei beni e quelle risorse vengono privatizzati cioè venduti, più spesso svenduti, ai privati per consentire ad essi di ultimare la loro lunga marcia di appropriazione del mondo. Di conseguenza, privare i cittadini dei luoghi deputati a sintetizzarne il volere è non solo utile per il privato inteso come sostantivo, ma addirittura logico e imprescindibile. Per contro, l’elettore, tramite la privatizzazione del mondo, diviene, a sua volta, privato, nel senso dell’aggettivo. Privato di tutto ciò che era suo e a cui egli potrà attingere solo se saprà e vorrà pagare il prezzo deciso dal mercato competitivo. Così da far godere, dietro corrispettivo, a qualcuno ciò che prima spettava a tutti gratis (in base al circolo virtuoso di tasse e servizio pubblico). La sanità sarà privata, l’istruzione sarà privata, i trasporti saranno privati. Quello che era un diritto di nascita, costituzionalmente garantito, diventerà un privilegio di censo, pure costituzionalmente garantito (lo dimostra l’introduzione brutale di un concetto tipicamente aziendalistico, come il pareggio di bilancio, nella nostra Carta Costituzionale). In tutto ciò, la sopraffina e mefistofelica sapienza del privato, inteso come sostantivo, è aver creato un sistema dove l’ingiustizia codificata è la panacea di ogni male a detta degli intellettuali di complemento della Matrice (quasi tutti). Anzi, l’iniquità e la subordinazione ai capitali privati (abilmente camuffate sotto termini quali flessibilità, tutele crescenti, sviluppo) sono il programma stesso di partiti di sinistra la cui classe politica è accuratamente selezionata e scremata al solo fine di assecondare lo spirito del Tempo e la voracità famelica dei nuovi padroni. Così, i Renzi, gli Hollande, gli Tsipras e tutti i loro movimenti dichiaratamente e formalmente democratici si tramutano nella cinghia di trasmissione delle corporations private alacremente tese allo smantellamento della democrazia sostanziale. Ecco spiegato come e perché la logica mendace cui accennavamo all’inizio ha potuto prosperare e conquistare persino la testa e il cuore di coloro che patiranno gli effetti di questa desertificazione miserabile. L’uomo nell’urna, oggi, non è più un uomo politico, cioè utilmente partecipativo (nell’accezione greca e nobile del termine), ma un uomo inutile, ingenuamente persuaso di portare il proprio contributo a un’agorà, una pubblica piazza, che non esiste più perché privatizzata. Non ci resta che confidare in Hegel e nella veridicità del suo assunto fondamentale: ogni tesi produce necessariamente un’antitesi e anche la notte più tetra reca in sé un seme di luce a preannunciare la fine del buio. Se questo è vero, proprio adesso che tutto sembra perduto, da qualche parte, in qualche modo, stanno germogliando gli antidoti a questo stato di cose. Il privato assoluto può privarci di tutto, può colonizzare persino le coscienze dei cittadini e corromperne i patetici rappresentanti e i servili maestri di pensiero. Ma la Storia, nel suo insondabile flusso, finirà per generare la soluzione che oggi non vediamo.
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