Prendete il grido di battaglia della Juventus (cucito sulle maglie): vincere non è importante, è l’unica cosa che conta. Il PD lo ha fatto proprio, ma al contrario e ve lo dimostriamo parlando di ‘fallimenti’. Gli esiti di un fallimento in qualsiasi settore della vita (politico, economico, sociale, sportivo, artistico che sia) misurano non solo la capacità e la qualità di un leader, ma anche la dignità e la statura del suo popolo, della sua gente. Facciamo due esempi per capirci. Immaginate che – all’esito di quell’autentica tragedia del football nazionale che è stata l’esclusione azzurra dai prossimi mondiali di calcio in Russia – il CT Ventura o il capo della FGCI, Tavecchio, avessero detto: “State sereni. Rimanere per una volta fuori dalla fase finale del Mundial non ci farà solo bene, ci farà benissimo”. Ci sarebbe stato un oceanico tsunami di pernacchie. Da parte dei tifosi, dei giornalisti, degli addetti ai lavori. Ventura se ne è andato e Tavecchio pure, senza prediche ridicole. Con qualche resistenza, d’accordo, ma alla fine gli anticorpi del senso di dignità di gruppo hanno prevalso. Non fosse accaduto, cosa avremmo dovuto pensare dei tifosi, dei giornalisti, degli addetti ai lavori? Che il vero problema non erano le guide (responsabili di un rovinoso tracollo), ma il ‘popolo’ di seguaci inetti a tal punto da non riuscire a rottamare i loro vertici. Immaginate ora che il maestro di sostegno cui avete affidato le traballanti sorti scolastiche del vostro figliolo – di fronte a una sonora, bruciante bocciatura – vi dicesse: “State sereni. Ripetere l’anno non gli farà solo bene, al ragazzo, gli farà benissimo”. Se vi tratteneste dal riempirlo di legnate (il maestro, non il ragazzo) dareste una prova di autocontrollo degna di un monaco zen. Ma se non lo faceste? Cosa si dovrebbe pensare? Che il problema non è né il ragazzo (bastonato dalla commissione d’esame) né il maestro (non bastonato da voi), ma la vostra remissiva insipienza incapace di farsi carico dei problemi e di risolverli partendo dalla ‘testa’. Bene, ora veniamo al PD. Un partito reduce dalla più umiliante batosta elettorale dal 1921 in poi. Passate due settimane di lutto, il suo capo – dopo aver rassegnato delle dimissioni pro forma e continuando a dettare la linea da dietro le quinte – ha affermato testualmente: “L’opposizione può farci bene, molto bene”. Al che non sono seguite né pernacchie né bastonate (metaforiche, s’intende). Tutti zitti e pedalare, proni e succubi nei confronti del principale responsabile di una disfatta leggendaria. Riprendendo il filo dei due esempi precedenti, quello calcistico e quello familiare, non possiamo che trarne una inevitabile conclusione. Il problema del Partito Democratico non è Renzi, né i suoi errori, né la sua inconsistenza. Il problema vero è la sua classe dirigente, così priva di amor proprio e spina dorsale da poter accettare senza batter ciglio, senza emetter fiato, la bacchettata di chi condusse le truppe al disastro. Anni fa, Nanni Moretti ebbe a dire, a una piazza sconfortata dai trionfi Berlusconiani: “Con questa classe dirigente non vinceremo mai”. Ecco, quel monito andrebbe aggiornato: “Con questa classe dirigente non vinceremo mai, e saremo pure felici”. Mai come in questo caso, è il caso di dire: contenti loro, contenti tutti.
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