In un’epoca di nani del pensiero, ci consola pensare a un gigante dimenticato. Sparito in un giorno di aprile di trentuno anni fa, senza fare più ritorno. Eclissatosi in un modo così improvviso e misterioso da conferire alla sua figura, già carismatica e prestigiosa, un alone leggendario. Parliamo di Federico Caffè, economista, insegnante universitario, studioso critico e implacabile dei peccati della nostra società. Caffè è morto? È stato dichiarato ‘morto presunto’ l’8 agosto del 1998. Quando è morto davvero? Nessuno lo sa. Egli non è ‘scomparso’ in senso figurato, come accade a quasi tutti i mortali i quali traguardano la sottile linea d’ombra tra il regno terreno e l’oltretomba. Piuttosto, è scomparso in senso letterale, da una sera a una mattina, prendendo congedo da tutti, prendendo in contropiede tutti, chi lo amava – i moltissimi studenti ammaliati dal suo genio visionario – e chi lo ignorava avendolo colpevolmente emarginato per la sua eccentricità.
Eppure Caffè, non era eccentrico se non nella misura in cui la sua dottrina, le sue parole, la sua visione divergevano dalla dottrina, dalle parole e dalla visione dei cattivi maestri destinati, poi, a dominare il mondo delle accademie e quello del common sense. Negli anni Ottanta andava affermandosi quel granitico conformismo neoliberista, oggi trionfante, in grado di trasformare la terra in un carnaio globale di merci, di affari e soprattutto di finanza speculativa. Anche e soprattutto grazie a loro, oggi viviamo nel più ingiusto dei mondi possibili, creato da quella specie di perverso doppelgänger del Dio di Liebnitz che risponde al nome di Mercato. Gli gnomi intellettuali generati da tale filosofia economica oggi pullulano negli studi televisivi e – dal fondo della loro ottusa minorità culturale, intellettuale e morale – discettano di ricette rigoriste, di pareggio di bilancio, di rispetto dei patti e dei trattati. Intanto, interi distretti industriali si spopolano, generazioni di giovani invecchiano in un eterno presente di precariato sfruttato e popoli dalla storia millenaria si rassegnano alla dittatura di burocrati inetti, parodie di contabili senza mandato.
Ecco, Caffè aveva previsto con vaticinante anticipo tutto questo, aveva denunciato la natura truffaldina del sistema borsistico, la vergognosa idolatria dei Mercati, il sovvertimento nietzschiano di ogni valore umanistico del vivere civile. Non più la politica sopra e la finanza sotto, ma il contrario. Non più John Keynes, ma Milton Friedman. Non più le forze della tecnologia al servizio dell’uomo, ma l’uomo schiacciato da una raffinata tecnologia in cui la schiavitù si produce non con i ferri, ma con il debito. E allora ripartiamo da Caffè e dal suo insegnamento dimenticato. Siamo ancora in tempo. In caso contrario, peggio per noi: la sua fine sarà la profetica metafora del destino di questa civiltà.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
1 Commento
Flavio
26 Novembre 2018 a 01:26quanta tristezza registriamo nell’ostinata negazione di una realtà che ci ha quasi totalmente travolti