“La fiducia non gliela dò perché sentirgli dire dieci volte ‘resilienza’ non si può accettare”. Lo ha detto Vittorio Sgarbi per motivare il proprio voto contrario al nuovo premier. L’argomentazione può sembrare bizzarra, ma vale la pena rifletterci su. In effetti, se ci pensate, “resilienza” è un termine di gran moda. Lo si sente ripetere a più non posso nei più diversi consessi. Soprattutto quelli elevati “colà dove si puote ciò che si vuole”. È tutto uno spreco di “resilienza”. Persino il mitico Recovery Fund è stato battezzato così: “Recovery e Resilience Facility (RRF)”, tradotto in italiano con “Dispositivo per la ripresa e la resilienza”.
Ma questo è solo l’ultimo, e il più eclatante, degli esempi. Per lorsignori bisogna migliorare la resilienza del sistema bancario agli stress esogeni, la resilienza dei paesi alla crisi, la resilienza dei cittadini al virus, la resilienza della democrazia alle sollecitazioni populiste. Ma perché diavolo gli piace così tanto questa nuova “virtù”? Semplice: perché esprime la quintessenza stessa della presente, e soprattutto futura, civiltà. Per capirlo, dobbiamo andare alla radice semantica del vocabolo: resilienza è, dal punto di vista fisico, “la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi” e, da un punto di vista psicologico, “la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà”.
Per capirci ancora meglio, potremmo definirla come l’attitudine di un soggetto a prendere pugni rialzandosi sempre in piedi, a pigliare ceffoni continuando a porgere l’altra guancia, a subire umiliazioni e frustrazioni tenendo comunque botta. L’esempio cinematografico perfetto di resilienza è la faccia di Rocky Balboa alla cinquantesima sventola mollatagli da Apollo Creed. Ma vi è stata tanta resilienza anche nel popolo greco rimasto nell’Unione pur dopo la cura della Trojka e pur dopo il tradimento del referendum. Vi è resilienza negli italiani per aver gradualmente accettato, e digerito, la marcia indietro del Paese da quarta potenza industriale del mondo, dei primi anni Novanta, a colonia dell’unione parasovietica di oggi.
Vi è resilienza nel modo in cui i lavoratori sono passati dalla piena occupazione come supremo valore alla disoccupazione fisiologica del dieci per cento come esigenza per la crescita. Vi è resilienza nella maniera in cui giovani hanno tollerato lo scippo del loro avvenire sacrificato sull’altare di San Precario. E non vi è forse un’enorme resilienza negli elettori i quali – dopo trent’anni da Maastricht – continuano a votare gli stessi partiti che, quasi sempre all’unanimità, approvano nell’ordine: Maastricht, Lisbona, Mes, Fiscal Compact e, infine, (quasi) tutti insieme appassionatamente persino Draghi? E quanta resilienza ci vuole per accettare l’isteria mediatica sulla pandemia e le conseguenti misure da regime sudamericano?
Capite ora perché questa parola piace? Perché misura il nostro grado di sopportazione. Ci hanno testato e ci stanno testando. E proprio come si fa in un serio programma di allenamento, aumentano poco a poco, i pesi per registrare, via via, la nostra “disponibilità” ad accettarli. La nostra “resilienza”, appunto. E si sono accorti che – se propinata nei dovuti modi, con le doverose cautele, con le studiate manipolazioni – non c’è limite alla “resilienza” di una nazione. E neanche a quella di un cittadino. Benvenuti nell’era della resilienza. E annotatevi le prossime tappe: prendere (sempre più) botte senza (mai) reagire.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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