In provincia di Padova, uno scandalo sessuale è deflagrato negli ambienti della diocesi locale. Un parroco avrebbe intrattenuto rapporti sessuali estremi con più donne e una di esse ha rilasciato denunce circostanziate dove lo accusa di rapporti anche non consenzienti, ammucchiate, prestazioni orali con altri sacerdoti, violenze ripetute e atti di sadismo videoripresi. Fermo restando che di preti insensibili al decalogo biblico è pieno il mondo e che l’accusato è innocente fino a prova contraria (e glielo auguriamo) la notizia vera, forse, è un’altra. Molti parrocchiani rivogliono l’indagato e hanno pubblicato tanto di manifesti dove si dichiarano disposti al perdono e bramano di riaverlo in canonica. Una corista della chiesa ha dichiarato a un quotidiano locale: “Siamo tutti sconvolti. Il solo pensiero che potrebbe non tornare più a occuparsi della nostra comunità ci rattrista perché è un prete speciale che in pochi anni aveva risollevato le sorti della parrocchia. Avvicinando alla chiesa molti giovani”. Segnatevele, queste parole, perché sono un sunto insuperabile – più di decine di tomi di sociologia del fenomeno religioso e di saggi sul declino del sacro nella contemporaneità – di ciò che la nostra società è diventata. La donna in questione non è inquietata dal fatto che il suo parroco possa essere davvero colpevole dei crimini ascrittigli. No, la corista è sconvolta perché il prete potrebbe non tornare a ‘risollevare le sorti della parrocchia’ e ad ‘avvicinare i giovani alla chiesa’. Disponibili al perdono, sempre e comunque. Anche gli estensori del manifesto, notate la sfumatura, non negano le accuse, gridando al complotto, il che potrebbe anche starci. Significherebbe difendere l’onore del don rifiutando di credere a un teorema infamante. No, piuttosto ci credono ma perdonano. Conta molto di più tenersi un prete carismatico e trascinatore di folle che perderne uno benché perverso. In questo episodio, a ben pensarci, è compendiato un senso che trascende sideralmente il dato miserabile e spicciolo dello scandalo di una micro comunità della bassa padana. C’è, piuttosto, tutto il coevo declino del senso del peccato e della colpa e della espiazione di cui siamo stati privati perché ci stanno (ci stiamo) insegnando vicendevolmente che – qualsiasi sia la sozzura, pur ignobile, con cui abbiamo macchiato la nostra anima – tanto poi c’è l’assoluzione. La misericordia, direbbe questo papa. Che è una gran bella cosa, ma solo se preceduta dalla punizione esemplare, dal martirio interiore, dall’ergastolo della coscienza, dai tormenti del Raskolnikov di Dostoevskij. Insomma, dalla tortura del rimorso e dalla severità della punizione. Invece no. Oggi, persino la Chiesa ci fa grazia del prezzo del peccato. Si passi subito al banco a incassare l’ego te absolvo. Anche al parrocchiano medio non gli frega più nulla dei minima moralia. Tanto, in giro se ne sentono di ogni. Sarà un caso, ma nello stesso giorno in cui riportava il grido angosciato della corista delusa, il giornale patavino sparava in prima pagina le parole del papa, nel carcere Due Palazzi di Padova, contro l’ergastolo, la pena suprema contro i supremi delitti. Oggi più che mai non è più il tempo della punizione di Caino, ma della sua riabilitazione. Abele si arrangi.
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