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L’Unione buona e “sociale” contro l’America trumpiana ed egoista: l’ultimo delirio della propaganda europeista

Sono bastati i dazi di Trump per dare una ridipintura ai muri ammuffiti dell’Unione Europea. E così fu che la cittadella della competitività, dei compiti per casa, dei conti in ordine, della bilancia (teutonica) commerciale in perenne attivo e della “crescita”, ossessivamente evocata e  perennemente abortita, ha riscoperto le proprie misconosciute, e tradite, origini “sociali”.

Vi basterà andare dal barbiere o prendere un caffè giù all’angolo ma anche sorbirvi i piagnistei degli opinion leader de noantri nei talk show serali – per farvi un’idea dalla nuova nenia ipnotica partorita dai pifferai della matrice comunitaria: l’Europa sarebbe – per tali cantori senza vergogna e senza ritegno  –  un baluardo di diritti sociali, di welfare diffuso, di sistemi sanitari gratuiti e accessibili a tutti. Una visione confortevole e confortante come la proverbiale coperta di Linus, uno dei mitici protagonisti dei Peanuts. Nonché inventata, proprio come tutti i personaggi dei Peanuts. Ma i benpensanti la adorano perché gli serve per  contrapporre questo presunto Eden sociale al modello statunitense, anzi trumpiano, additato quale apoteosi del capitalismo sfrenato, del profitto ad ogni costo e della più  selvaggia deregulation.

E allora raccontiamola la vera storia “economica” del sogno europeo perché è più divertente di una striscia di Linus. Essa si regge, e trae linfa (guarda un po’) da una vocazione neoliberista in salsa anglosassone inzuppata nell’ordoliberismo di ascendenza germanica.

Il neoliberismo, che ha nella Scuola di Chicago la sua cittadella di riferimento, e in Milton Friedman il suo profeta, ha trasformato i “Mercati” in una sorta di divinità pagana. Essi sono un’entità sacra, un meccanismo perfettamente oliato dove la concorrenza è la legge suprema, e ogni intervento “umanizzante” di quest’ultima – dal welfare alle protezioni sociali, dal sistema pensionistico alla sanità gratuita e universale – è visto come un’eresia distorsiva della purezza del sistema.

Il suo mantra è un tam tam ipnotico: sempre meno Stato, sempre più mercato. Privatizzare, deregolamentare, ridurre le tasse ai grandi capitali e lasciare che la “mano invisibile” faccia il suo corso. Sennonchè questa mano sarà pure invisibile ma, come la cieca fortuna, ci vede benissimo: essa, infatti, individua  con occhio di falco e  tratta con guanti di velluto (sotto forma di agevolazioni fiscali e incentivi di ogni genere) le multinazionali, i colossi finanziari e i gruppi di potere del grande capitale privato. Il privato cittadino, invece, viene trasformato in “consumatore” i cui diritti sono tutelati se, e nella misura in cui, egli – per l’appunto e in primo luogo – “consuma”. Cioè: spende nei gadget sempre nuovi che i Mercati rovesciano sulla sua tavola, sulla sua strada, sulla sua vita. Con il che si capisce perché, negli ultimi anni, abbiamo avuto presidenti e capi di stato tanto preoccupati di garantire la stabilità dei “mercati” piuttosto che il rispetto delle “costituzioni”. E perché hanno proliferato i codici del consumo e le associazioni dei consumatori anziché gli statuti del lavoro e i sindacati dei lavoratori.

Il neoliberismo della Scuola di Chicago non è solo un modello economico, ma una strategia di dominio. Ha plasmato le politiche globali, influenzato le istituzioni internazionali e trasformato intere nazioni in laboratori di esperimenti economici dove le cavie siamo noi. Il risultato? Un mondo in cui la ricchezza si concentra sempre più in poche mani, mentre la maggioranza si accontenta delle briciole, convinta che sia tutto parte di un ordine naturale e inevitabile, ma comunque giusto, anche se “invisibile”. Proprio come quello su cui si reggono le teocrazie odierne o le civiltà religiose di un tempo. Ed è su questo format che l’Unione ha deciso di “profilarsi”, sia pure con una sfumatura squisitamente europea, ma non per questo più “comprensiva” nei confronti delle persone, o meno sensibile nei riguardi dei mercati.

Parliamo dell’ordoliberalismo (o ordoliberismo che dir si voglia) della Scuola di Friburgo che, a sua volta, non è solo una teoria economica, ma una vera e propria architettura di potere. I suoi padri – Walter Eucken, Wilhelm Ropke e altri come Böhm e Rüstow – disegnarono un modello in cui lo Stato doveva limitarsi a stabilire le regole del gioco, lasciando poi ai mercati il compito di liberare le loro “energie” all’interno di quelle regole.

A differenza dei “liberisti” classici, che predicano il laissez-faire come muezzin salmodianti dai minareti, l’ordoliberalismo sa che il mercato è una costruzione artificiale, un meccanismo che va “regolato” per evitare che si trasformi in un’arena di monopoli e cartelli. Questa visione ha plasmato l’economia sociale di mercato adottata dalla Germania Ovest nel dopoguerra. Essa prevede anche l’obbligo, per lo Stato, di puntare su “avanzi primari” in campo fiscale, su privatizzazioni del patrimonio e degli asset (anche strategici) nazionali laddove funzionali ad ottenere risorse aggiuntive, su una riduzione del costo del lavoro per competere, e quindi vincere, nella guerra dell’import-export. Per dirla con le parole di uno dei più acuti studiosi del sistema in questione (Michel Foucault): “Gli ordoliberali sostengono che bisogna porre la libertà di mercato come principio organizzatore e regolatore dello Stato, dall’inizio della sua esistenza sino all’ultimo dei suoi interventi. Detto altrimenti: uno Stato sotto sorveglianza dei mercati. Anziché un mercato sotto la sorveglianza dello Stato”.

I trattati europei, Maastricht in testa, sono un sunto “bastardo” delle due dottrine di cui sopra: il Moloch della competitività  è (in teoria) stimolato con lo scudiscio della disciplina fiscale, mentre la redistribuzione della ricchezza e la tutela dei lavoratori restano ampiamente sullo sfondo, quali comparse di secondaria importanza, quando non addirittura vittime sacrificali di un copione già scritto.

Per concludere, l’Unione Europea – lungi dall’essere quel paradiso sociale che oggi i pennivendoli di regime e i piazzisti dell’Europa “sociale” e “inclusiva” ci spacciano da mane a sera –  è il prodotto alchemico di decenni di influenze neoliberiste e ordoliberiste, veicolate da ben precise lobby finanziarie e industriali e propagandate dal sistema mediatico mainstream, al soldo di queste ultime. Il sogno di un’Europa equa e solidale (effettivamente scritto nelle costituzioni primigenie degli Stati europei, ai tempi in cui essi erano realmente sovrani) si è dunque infranto contro la realtà di una macchina perversa, ma quasi perfetta, costruita per servire gli interessi dei grandi gruppi economici, lasciando ai cittadini solo l’illusione di contare qualcosa.

Del resto, nel 2013 gli analisti   della JPMorgan – David Mackie, Malcom Barr, Marco Protopapa, Alex White, Greg Fuzesi e Raphael Brun-Aguerre – scrivevano che le costituzioni “socialiste” di paesi come l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia erano di impaccio alla crescita. E proprio per questo andavano rottamate, più di quanto già non lo fossero state.

Il Trattato di Maastricht del 1992 e quello di Lisbona del 2007 (architravi  istituzionali dell’Unione), andavano già in questa direzione, esaltando le maschie virtù di un mercato “fortemente” competitivo. Un principio traditore di quell’impronta keynesiana su cui si fondano molte delle succitate costituzioni delle varie nazioni europee uscite in cenere dal conflitto mondiale, tra le quali spicca la nostra del 1948 per la sua marcata torsione antiliberista e, ci si passi il termine, “umanista”; dove la persona umana (e la sua “piena realizzazione”) vengono, appunto, prima del mercato, stanno sopra il mercato medesimo e lo governano attraverso istituzioni realmente “politiche” perché sufficientemente rappresentative (quantomeno nelle intenzioni) della volontà popolare. Per contro, i famosi trattati, invece che all’equità e allo sviluppo sostenibile, hanno spianato la strada alla supremazia delle grandi multinazionali e delle oligarchie finanziarie “garantite” dalle regole (opportunamente e specificamente scritte) del Superstato europeo .

L’Unione Europea non è un’istituzione spontanea, nata da un processo democratico volto a proteggere i cittadini. La sua governance è stata profondamente influenzata, sin dagli anni Ottanta, dal braccio armato dei CEO delle principali multinazionali europee, riuniti nella cosiddetta Tavola Rotonda degli Industriali (European Round Table of industrialists). Questa organizzazione, composta da una cinquantina di amministratori delegati delle più potenti industrie europee, ha avuto un ruolo determinante nel plasmare le politiche comunitarie, orientandole verso la liberalizzazione dei mercati, la deregolamentazione, la riduzione del ruolo degli Stati e la facilitazione degli scambi commerciali a beneficio esclusivo delle grandi corporation. Essi trovarono in Jacques Delors, economista e politico francese nonché semidio del Pantheon degli “euroinomani”, una sponda fondamentale. Nel 1985, il CEO di Philips presentò il progetto “Europa 1990” contenente la road map verso il mercato unico. Nel giugno dello stesso anno, Lord Cofield, vice presidente della Commissione europea, diede alle stampe il libro bianco sul mercato unico unico che era, sostanzialmente, un copia incolla delle idee del CEO di cui sopra. Non solo: ogni sei mesi si teneva un vertice europeo e, puntuale come una tassa, due giorni prima l’ERT incontrava riservatamente i membri del Consiglio europeo. Per chi volesse una panoramica più approfondita di questa deliziosa e commovente storia d’amore, rimandiamo al documentario “The Brussel business” di Friedrich Moser e Matthieu Lietaert.

Non sorprende, dunque, che Bruxelles sia oggi il più grande hub di lobby del mondo. Migliaia di associazioni lobbistiche lavorano incessantemente per influenzare le decisioni politiche dell’Unione, garantendo che le normative conseguenti vadano sempre ad assecondare chi detiene le borse e i capitali. Le singole nazioni, per contro, sono state assoggettate a una sorta di liquidazione coatta amministrativa attraverso i famosi (e letteralmente deliranti) parametri del rapporto deficit/pil e debito/pil in combinato disposto con la castrazione della sovranità monetaria e l’avocazione del relativo (e sommo) potere di battere moneta a una Banca centrale rigorosamente straniera e “indipendente” da qualsivoglia mandato politico; presso la quale i rappresentanti dei cittadini sono costretti ad elemosinare risorse (sotto forma di quantitative easing) se, quando e quanto il monarca lo vuole. E talora il monarca lo vuole; per esempio, quando egli sogghignando sussurra: “Whatever it takes”; così i debiti pubblici respirano, gli spread calano, i mercati sorridono, gli stati si salvano. Oppure, nei casi peggiori, vengono “salvati” a colpi di Trojka e di lacrime e sangue (alla greca, potremmo dire). In fondo e dopotutto, come vedete, è relativamente semplice riassumere  i vent’anni che abbiamo alle spalle.

Ora, chi ha costruito, assecondato e giustificato questo orrore sono stati, per lo più, i funzionari dei grandi fondi di investimento e dei potentati finanziari e di “consulenza” globale dalle cui porte girevoli uscivano ed entravano gli stessi uomini “politici” artefici del sogno europeo. Veri e propri “ladri della patria” i quali – mentre i cittadini di democrazie più o meno vitali, ma sicuramente e autenticamente “sociali” si facevano fustigare piegati a novanta – li derubavano, col favore delle tenebre, ma pure sotto il sole indifferentemente, del bene più prezioso: la propria sovranità nazionale. Sono le stesse facce di tolla le quali adesso invocano l’ora d’odio contro Donald Trump, ritratto come il perfetto esempio dell’America egoista, capitalista e arraffatrice.

In realtà, le politiche di Trump – oltre a puntare, con tutta evidenza, a un ridimensionamento dell’aggressivo modello (orientato a un export selvaggio) tipicamente cinese e tedesco – rappresenta una sfida diretta all’intero progetto “ingegneristico” globalista. La sua politica dei dazi ha colpito al cuore un sistema che ha favorito, negli ultimi decenni, una delocalizzazione selvaggia e una crescente precarizzazione del lavoro, l’apertura indiscriminata delle frontiere, la deflazione salariale, lo sfruttamento della manodopera di riserva proveniente da paesi poveri, la demolizione dei contratti stabili e garantiti: tutte queste dinamiche sono nel mirino dell’attacco in chiave protezionistica e nazionalistica di Trump. Piaccia o non piaccia, così stanno le cose. E la faccenda non piace soprattutto a coloro che – sul modello di un mercato unico mondiale senza confini, senza lacci e lacciuoli, senza dazi e senza controlli, nonché  sulla devastazione dei diritti dei lavoratori e sulla trasformazione del lavoro in merce, del lavoratore in schiavo “salariato” e della mobilità permanente in feticcio supremo – ha costruito le proprie fortune. Ma anche le sfortune di quelle classi sociali – svantaggiate, anzi massacrate, dall’ideologia global –  di cui, paradossalmente, l’ultramiliardario Trump, in questo momento storico, ha preso le parti molto più e molto meglio di quanto non abbiano fatto, nell’ultimo trentennio, gli autoreferenziali partiti progressisti e di sinistra. Che poi queste classi siano quelle americane e non quelle europee, non è certo un problema di Trump. Ma, di sicuro, è in buona parte colpa nostra.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com

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