A Venezia, Don Mario Sgorlon, parroco di Sant’Erasmo, ha affisso il seguente cartello al portone: “La messa è sospesa per mancanza di fedeli”. E ancora: “Don Mario è disponibile su richiesta”; segue utenza cellulare per le emergenze. Il povero prete disoccupato ha detto: “Non c’è più tanta gente che viene alle celebrazioni e, quindi, per evitare di restare io da solo sull’altare, ho messo l’avviso; una volta ci siamo trovati in tre. Insomma, celebrare così, non ha senso”. Su Repubblica, giornale notoriamente sul pezzo quando si tratta di tenere alta la bandiera della laicità, hanno titolato, sgomenti: ‘La messa è finita, chiese sempre più vuote nonostante Bergoglio’. Il che certifica come molta parte dell’informazione che conta non ha capito e non sta capendo un accidenti delle dinamiche in atto nella senescente Chiesa Cattolica. Ma non stupisce. Papa Francesco è il più gettonato, vezzeggiato, coccolato pontefice della storia. E mica dal popolino degli stolidi credenti. Macché. Dai vips, dalla gente che piace alla gente che piace. E lui piace un sacco al mondo perché non è solo nel mondo – per rifarci a un celebre monito evangelico – ma anche e soprattutto di mondo. Tuttavia, l’errore del quotidiano fondato da Scalfari non è neanche questo e non riguarda neppure e tanto Bergoglio. Concerne, piuttosto, il concetto stesso di fede, le ragioni del varcare le soglie di un tempio, le strategie della Chiesa Cattolica, dal Concilio Vaticano Secondo in poi. Il papa attuale non è l’unico responsabile delle messe deserte e disertate. È solo l’ultimo. Egli compendia in sé, nel suo modus operandi, nei suoi messaggi epocali, nelle sue esibite virtù, il non plus ultra delle ricette post conciliari liofilizzabili in due righe: parlate meno di Dio, meno della morte, meno dell’aldilà e apritevi al mondo, alla storia, alle culture altrui. Da qui scaturisce una molteplicità di fenomeni, apparentemente sconnessi per quanto sono eterogenei, eppure figli della medesima filosofia: dall’ossessione per l’ecumenismo all’insistenza sulla pace universale, dal tic dell’accoglienza a prescindere al buonismo da sacrestia, dall’ecologismo Wwf style a un pauperismo gesuitico. Il tutto accompagnato da una scadimento evidente dei codici comunicativi: i sacerdoti celebrano messe sempre più ‘umane’, e squallide, infarcite di cacofoniche schitarrate, di urlatrici gospel, di canzoni da zecchino d’oro, di simboli puerili e privi di storia (se ne vedono di ogni, dalle pagnotte agli accendini, dai chicchi di caffè alle palline da tennis: tutte iconografie inventate a colazione) e trascurano, o addirittura occultano, l’unico simbolo di cui dovrebbero andare orgogliosi: la croce. Perché nella croce c’è il dolore, c’è la sofferenza, c’è la vecchiezza, ma anche la morte e la resurrezione. Che sono gli unici, veri motivi per cui la gente andava (e andrebbe) a messa; per ricevere, cioè, risposte in-credibili al solo problema per il quale la civiltà digitale non dispensa soluzioni: perché ci hanno gettati qui e perché siamo destinati a piangere assai prima di morire. Tutto il resto sono baci&abbracci. Carucci, alla moda, zuccherosi come la blesa parlata del papa argentino, ma niente a che vedere con quanto rianimerebbe le messe di don Mario Sgorlon.
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