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La lunga marcia

Abbiamo del lavoro da fare, tanto lavoro da fare, un lavoro difficilissimo, ma non impossibile. Il lavoro di cui parlo è la destrutturazione per via pacifica, e giuridica, di una dittatura. Le dittature si possono instaurare in vari modi: attraverso un colpo di stato con sovvertimento violento e repentino dei gangli democratici di una nazione, attraverso libere elezioni che favoriscano l’ascesa al potere di un movimento con dichiarate o malcelate mire dittatoriali e, infine, attraverso la lenta –  quasi inavvertibile nel breve periodo – erosione dei cardini su cui una democrazia si regge. Nel nostro caso, la dittatura nascente – quella che ogni giorno prolifera come un tumore maligno sotto i nostri occhi addormentati  – ha scelto l’ultima via.

A partire dal 7 febbraio 1992, data del trattato di Maastricht, e attraverso una marcia a tappe forzate fatta di trattati, regolamenti, direttive, essa si è via via consolidata seguendo due direttrici precise: in primis, lo svuotamento sostanziale della sovranità legislativa della Repubblica Italiana tramite la progressiva marginalizzazione degli organi specificamente deputati ad esercitarla; in secundis, la privazione della possibilità stessa, per i Governi del nostro Paese, di fare, o anche solo pensare, politiche di spesa espansive senza prima ricorrere al nulla osta di istituzioni internazionali non elette o senza essersi guadagnati la benevola compiacenza, preferibilmente ex ante ma non di rado ex post, di entità anonime e irresponsabili quali i mercati e le borse. La prima direttrice è stata colpevolmente favorita da talune sentenze potenzialmente eversive della nostra Corte Costituzionale: in particolare la storica pronuncia nr. 170/1984 con la quale il Giudice delle Leggi dichiarò che, nelle materie di competenza comunitaria, il magistrato italiano è tenuto ad assicurare l’applicazione diretta dei Regolamenti europei, se del caso anche disapplicando le norme nazionali anteriori o successive. Con il che qualcuno ha ottenuto, senza spargimenti di sangue, che norme elaborate altrove per iniziativa di un consesso di ottimati (quali i membri della Commissione europea) privi di alcuna legittimazione popolare, men che meno “popolare  italiana”, dettassero l’agenda e le regole a cui noi dobbiamo supinamente assoggettarci. E qui veniamo al secondo punto (l’inibizione della possibilità di fare politiche di spesa) che trae origine proprio da uno di quei regolamenti “sdoganati” dalla pronuncia della Corte Costituzionale di cui sopra.

Parlo del Regolamento 1466 del 1997 (Patto di Stabilità e Crescita) il quale restrinse i margini già risicati previsti da Maastricht (rapporto del 3% deficit/PIL) e istituì la regola del tendenziale pareggio di bilancio poi confluita nel fiscal compact   e addirittura inserita nell’articolo 81 della nostra Carta fondamentale. Se vi viene in mente la parola “colpo di stato”, sappiate che siete in ottima compagnia. Uno dei più autorevoli giuristi italiani, Giuseppe Guarino, ha perentoriamente affermato nel suo ‘Saggio di Verità’: “Il primo gennaio 1999 un colpo di Stato è stato effettuato in danno degli Stati membri, dei loro cittadini, e dell’Unione. Il golpe è stato realizzato non con la forza, ma con fraudolenta astuzia”. Riassumendo: abbiamo un lavoro da fare e dobbiamo cominciarlo mettendo nel mirino il nuovo testo degli articoli 81, 97, 117, 119 della Costituzione (deturpati dal fiscal compact). Poi il resto. Come diceva Lao Tzu, ogni lunga marcia comincia con un passo.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com

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