I giornali ci riferiscono della penosa vicenda di un bambino inglese, Charlie Gard, del quale i tribunali britannici hanno decretato la condanna a morte. Charlie è afflitto da una patologia rarissima, quanto letale, responsabile di un deperimento progressivo della muscolatura e dell’impedimento al respiro autonomo. I genitori non si sono arresi e hanno continuato a cercare le cure di cui un’era iper-tecnologica e super-scientifica come la nostra farebbe supporre l’esistenza, da qualche parte, in qualche modo. Ma i giudici hanno detto di no: lasciate morire (o fate morire?) quel bambino. Capite bene che la linea tra il permettere che uno crepi – privandolo dei sussidi, anche meccanici, alla sopravvivenza – e l’ucciderlo è labile davvero, quasi impercettibile. Eppure, i magistrati ritengono di non averla varcata. Loro, i fidi esecutori della Legge, cioè dello Stato, cioè del Superiore Interesse della Collettività Organizzata, hanno deciso che consentire a Charlie di seguitare a inalare aria (sia pure col tramite di un tubo) è accanimento terapeutico. Che muoia, il poverino, soffocato. Sulla vicenda ha messo il proprio cappello la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo alla quale gli sventurati genitori si erano rivolti per ottenere una sacrosanta, non ricusabile giustizia: bloccare il braccio armato dei Codici e ridare una chance a Charlie perché non è detta l’ultima parola e perché non è finita finché non è finita davvero. Ebbene, la Corte ha detto no. Charlie ha da morire; cioè, scusate, deve essergli concesso il diritto di morire. La Corte Europea non si chiama “dei diritti” per caso, vero? Dunque, Charlie morirà. Poi, che volete, sarà la nostra coscienza a spiegarci se gli è stato concesso di morire – esaudendone così un desiderio inespresso – o se lo hanno semplicemente giustiziato per fargli un favore. Personalmente, optiamo per la seconda ipotesi. La Corte lo dice a chiare lettere: è inaccettabile che Charlie soffra in quel modo, ergo si ponga fine al supplizio. Eppure, la singolarità del caso non sta tanto nell’argomentazione, quanto piuttosto in chi si è arrogato il potere di “premere il grilletto”. In fondo, tutte le proposte di legge sul fine vita, scaturiscono dagli stessi pietosi moventi. Ma tutte si basano, anche, su un assunto insindacabile: è il Soggetto a dover decidere del proprio exitus; nessuno può costringere una persona a patire i supplizi dell’inferno oltre la misura da essa stabilita. Nella vicenda di Charlie è diverso, perché la scelta non l’ha fatta il Soggetto (e cioè i genitori del minore incapace), ma lo Stato. Abbiamo varcato una soglia pericolosa e istituito un insidioso precedente. L’Autorità emette il verdetto per noi. Può spegnere una vita per il suo bene. Oggi quella di un bimbo, domani magari di un anziano, di un handicappato o di un malato terminale. Anche contro la sua volontà. E in una Community, come quella Europea, dove gli alti papaveri vanno in sollucchero al solo udire le parole aborto e eutanasia, qualche brivido sinistro ci corre giù, lungo la schiena.
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