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ISLAMCOLATA CONCEZIONE

CIPOLLAIn occasione di un’intervista televisiva, il nuovo vescovo di Padova, Monsignor Cipolla, ha dichiarato: «Se fosse necessario, per mantenerci nella pace, nella tranquillità e nelle relazioni fraterne, io non avrei alcun problema a fare un passo indietro su tante nostre tradizioni». I media, giustamente, hanno dato ampio risalto alla notizia che non è smentibile perché rilasciata ai microfoni di una giornalista davanti a una telecamera. Purtroppo, Cipolla è caduto nel trappolone tipico della vanità offesa e, di fronte a reazioni controverse, ha ritenuto tatticamente opportuno fare marcia indietro. Così: «Non sono contro la presenza della religione nello spazio pubblico, né tantomeno contro le tradizioni religiose, ma né le religioni né le tradizioni religiose possono essere strumenti di separazioni, conflittualità, divisioni».  A Padova si direbbe: xe peso el tacon del sbrego. In altre parole, la pelosa smentita della glabra dichiarazione ha peggiorato le cose. Infatti, il pensiero del vescovo era inequivocabile e, per quanto egli non abbia pronunciato la parola presepe, né il termine chiesa, tutti hanno capito benissimo che il presule si riferiva proprio ai tradizionali simboli natalizi della cristianità. I veneti sono un po’ chiusi, magari anche ponderati e brontoloni, ma non stupidi. Quindi, il rappezzo di Cipolla, quell’arrampicata libera sullo specchio del contorsionismo linguistico non solo non ha funzionato, ma gli ha nuociuto. Ci mancherebbe che un vescovo fosse contro la presenza religiosa nello spazio pubblico. Serviva sottolinearlo? E poi quella excusatio lessicale, da politico della domenica, un po’ democristiana e molto farisea, ha fatto perdere credibilità a una posizione chiara e altrimenti difendibile. Perché Cipolla intendeva significare  proprio quel messaggio da tutti rettamente recepito e da lui paradossalmente ribadito anche con la successiva e spericolata inversione a U: pur di coltivare la pace, pur di mantenere rapporti di buon vicinato, pur di non urtare le suscettibili orecchie altrui, va bene anche rinunciare, per una volta, alle ‘imitazioni’ della nostra storia sacra, alle allegorie delle nostre credenze, insomma a tutto ciò che lede la incompatibile fede dell’altro. Il vescovo di Padova ha peccato di esitazione. Avrebbe dovuto  trovare il coraggio di varcare finalmente il Rubicone delle mezze misure (quella barriera ideale che il suo comandante in capo ha già oltrepassato da un pezzo) e puntare dritto al bersaglio grosso perseguito (perlopiù in buona fede) da tanti altri, e alti, prelati: la demolizione controllata delle peculiarità distintive della Chiesa Cattolica in vista dell’edificazione di un nuovo contenitore religioso universale. Un recipiente di materiale meno grezzo della bucolica mangiatoia. Magari una culletta termica in plexiglass dove rannicchiare non un bambino Dio (il vertiginoso scandalo del Cristianesimo), ma un po’ di concetti alla moda, elastici a sufficienza per coprire le pudenda di tutti, ma non troppo da causare strappi a qualcuno: solidarietà, candore, apertura, amore, fraternità, condivisione. Tutta roba zuccherosa assai, parecchio duttile, adattabile alla bisogna. La rivoluzione semantica della tenerezza, per usare un sostantivo tanto caro a Bergoglio. Rivoluzionari siffatti non solo non hanno alcun bisogno di opporsi a chi li avversa, ma nutrono l’ambizione contraria, di essere accettati dal nemico, assorbiti senza scosse in nome di una malintesa remissività, prerogativa tutt’altro che evangelica (anche se diversi preti non l’hanno capito). Le parole di Cipolla, in  definitiva, sunteggiano alla perfezione ciò che gli imperatori del tardo impero esigevano  dai protomartiri. I romani bruciavano o crocifiggevano i cristiani proprio per la loro altezzosa, ostentata diversità che impediva ai seguaci di Gesù di mescolarsi bonariamente, in un cameratesco e sincretistico abbraccio, nel crogiuolo di culti brulicanti da una sponda all’altra del Mediterraneo. L’invito del vescovo di Padova è una negazione a tutto tondo  dello spirito dei primi martiri. Peccato che, sull’intransigenza suicida dei martiri, poggi il colonnato di San Pietro. Un’intransigenza risoluta a  predicare (e praticare) il proprio credo financo all’estinzione di sé, alla pari di uno stoico coevo o di uno jihadista odierno. Con una differenza: lo stoico si dava la morte come liberazione razionale dalla vita, il mujaheddin si dà la morte per mandare all’inferno gli infedeli. I primi cristiani, invece, si davano alla morte per evitare l’abiura. Un approccio non egoistico (da stoici antichi), non antiumano (da bombaroli odierni), ma perfettamente in  linea con la coerenza irriducibile di un vero credente. Essi rinunciavano alla loro esistenza, pur di non rinnegare il simbolo apostolico. Che c’azzecca il monito cipollino con questa mappa del mondo? Nulla. Esso sarebbe suonato perfettamente logico, sensato, filosoficamente sottoscrivibile, a un Diocleziano: “Pace, pace, pace! Papa Francesco ci sollecita di continuo nell’obiettivo di costruire un mondo di pace, senza conflitti, in cui la relazione tra fratelli sia prioritaria e l’indifferenza non trovi casa”. Ed ecco il punto. Il cristianesimo, come qualsiasi altra rappresentazione collettiva, si regge sull’energia con cui i suoi adepti lo alimentano. Il cristianesimo non ha niente a che fare con l’utopia general generica di una pacifica convivenza planetaria. Questo può essere il contenuto di una dottrina metafisica (alla Kant), di una dichiarazione universale (da Nazioni Unite). In una religione (quella cristiana perlomeno) il pacifismo è, semmai, un precipitato inevitabile delle premesse, ma non è la Premessa. E neppure, tantomeno, la Promessa. La Promessa del Salvatore è la sua vittoria sulla morte che è premio della tua fede nel Signore. E la fede non ammette passi indietro, solo passi avanti. Altrimenti cessa di essere tale e diviene divulgazione popolare di buoni sentimenti plasticamente adattabili a qualunque stampo. Purtroppo per i cristiani residui, è ciò che sta avvenendo. Cipolla ha esplicitato, in uno slogan, un processo storico che la Chiesa, ingenuamente tra la sua base, scrupolosamente tra i suoi vertici, persegue da decenni: la propria desacralizzazione, la propria de-evangelizzazione, la propria ecumenizzazione. In definitiva, l’edulcurazione prima, l’eutanasia poi, della Fede in un Senso, che poi è un Uomo, preciso e storicamente inverato, il quale ha oltrepassato le soglie di granito del più osceno dei misteri (la Morte) ed è tornato indietro a dirci che lo si può disvelare. Nelle chiese d’oggi, negli edifici cultuali della cristianità, questo sfolgorante annuncio si è tramutato in un contenuto secondario. O, meglio, in una specie di danno collaterale (tollerato con fastidio) rispetto all’urgenza di veicolare una rivoluzione umanistica. La rivolta del common sense propugnata da quelli che ‘dobbiamo volerci  tutti bene così non ci saranno più guerre’. E magari, tutti insieme, andremo a farci un bel pic-nic sui colli. Concedetevi un giro a messa. C’è una buona probabilità che vi imbattiate in prediche scialbe e infantili di  parroci increduli che esortano i pochi praticanti rimasti al suicidio della fede. Con parole del tipo: non affanniamoci a marcare differenze tra le varie religioni, ognuna di esse contiene una parte di verità. Vale a dire, la destrutturazione di ciò che rende Unico, e quindi solido, il credo cristiano. Questa verifica empirica vi restituirà lo scenario di uno stato di avanzamento dei lavori non reversibile. Perciò, il problema non è il ‘passo indietro’ su presepi & affini suggerito da Cipolla. Il problema non è neppure Cipolla. Il problema, per la Chiesa s’intende, è che essa ha smesso di sollecitare e propagandare e rivendicare la sua non negoziabile Verità. Quello del vescovo di Padova è solo l’ultimo di una interminabile serie di ‘passi indietro’ fatti da milioni di suoi predecessori prima di lui. Persino il rettore della Basilica del Santo di Padova è in linea con questa secolare ritirata, stando a quanto dichiara: «Gli islamici per primi non hanno problemi con le nostre feste. Loro riconoscono in Gesù Cristo il profeta. E, per quello che ho visto io in tanti anni di presenza nelle scuole, colgono queste occasioni per arricchire la loro cultura. Perciò sono convinto che noi dovremmo utilizzare questi momenti per far conoscere le nostre tradizioni. Non per fare atti di culto, sia chiaro, ma per festeggiare insieme. E le scuole, in segno di reciprocità, dovrebbero organizzare momenti dedicati anche alle feste islamiche, perché così lo scambio culturale sarebbe completo». Capito? Non per fare culto, sia chiaro. Al massimo, per fare cultura. Il fatto che Cristo, per i cristiani, sia Dio e non un profeta diventa un dettaglio in cronaca. In verità, parliamo di un processo di smacchiamento generale di qualsiasi Idea forte a cui i mussulmani non si rassegnano, mentre i vertici della Chiesa si adeguano benissimo e volentieri. Dai papi ai porporati ai sottoposti, quasi tutti assecondano questa temperie di smobilitazione, questo sbaraccamento progressivo degli avamposti irrazionali e mistici su cui si reggeva il Cristianesimo. Stanno trasformando i parroci e i cappellani (i pochi rimasti di vedetta) in caschi blu dell’irenismo illuminista e la Chiesa Cattolica Romana in una palestra per party alla pari, con spuma e pasticcini e seminari sulle tradizioni altrui, per arricchire la cultura e, va da sé, impoverire la fede. A quando le gite in moschea organizzate dall’azione cattolica per una bella preghiera bipartisan? Dopotutto, è solo arricchimento, bellezza. E queste non sono battute, sono scommesse per chi ama vincere facile. Quando una religione perde ogni pretesa di ri-legare i suoi appartenenti intorno a un Credo definito, netto, comprensibile, cessa di avere senso. Diventa un boccone appetibile da chi ha fame perché di essa non v’è più bisogno. Una religione letteralmente e inesorabilmente buona. Buona a farsi divorare da altre fedi (o da altre visioni nichiliste del mondo) come i primi cristiani dai leoni. Può consolarci che assisteremo a un processo pacifico, proprio nel modo e con le forme auspicate da Monsignor Cipolla: poco a poco, piano piano. Tomo tomo e cacchio cacchio la nostra società (già scristianizzata, se non anti-cristiana) si troverà a celebrare i culti e a cantare gli inni di qualcun altro. Gli unici a non averlo capito sono gli estremisti che si ostinano a usare catapulte e mazze ferrate per sfondare i bastioni e i portoni della nostra Civitas. Senza accorgersi che son già venuti giù.

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