“Ciò che so con certezza è che dobbiamo far rimpiangere a questo governo il giorno in cui ha deciso per egoismo, interesse e cattiveria che per esistere bisognava diventare razzisti”. Chi ha scritto questa frase memorabile, questo monito da brividi, questa autentica perla di indignazione civica? Stiamo scherzando, ovviamente. Le domanda giusta è: chi ha scritto questa puerile fesseria da bacio Perugina del qualunquismo universale? E la risposta giusta è: Roberto Saviano. Il grande intellettuale? Il grande intellettuale, proprio lui. Il quale – tra tutte le possibili (e serie) chiavi (politiche, sociali, economiche) di interpretazione critica dell’operato del nuovo esecutivo – ha scelto l’unica ridicola, da asilo Mariuccia: quella moralistica che tutti noi usavamo, prima di varcare la soglia dell’età della ragione, di fronte a un supposto sopruso. All’indirizzo di chi l’aveva – secondo la nostra minuscola visione del mondo – perpetrato (genitore, maestro, catechista che fosse), urlavamo: sei cattivo! Con la cultura e il vocabolario di un buon intellettuale, avremmo aggiunto anche: sei razzista, e forse pure populista, se la moda di allora lo avesse consentito. Proprio come Saviano fa ora.
Ogni epoca, ha detto qualcuno, ha gli intellettuali che si merita. Però, scusate, abbiamo una nostalgia canaglia di quando scrivevano giganti come Pierpaolo Pasolini e Oriana Fallaci. Essi, il primo in particolare, denunciavano le invisibili ‘infrastrutture’ corrotte e malate di un sistema apparentemente sano. Cioè svolgevano il compito di ogni intellettuale decente: permetterci di dare un’occhiata sotto l’opaco tappeto della cronaca (intessuto dai media ufficiali con il preciso intento di nascondere la polvere) per consentirci di vedere. Vedere in senso più che letterale: scorgere le inique linee di forza che uniscono i puntini di fatti, personaggi, istituzioni incensurate e, soprattutto, incensurabili. Oggi, gli intellettuali si guardano bene dal guardare sotto il tappeto. Forse perché non vogliono vedere, chissà. Magari vedono il male evidente dove c’è e meritoriamente lo denunciano (come fa, a suo rischio – e di questo gli va dato atto e merito – Saviano), ma non notano quello occulto, talora più grave del primo. Magari perché è occulto? Questo fatto, per un vero intellettuale, non costituisce un alibi, ma un’aggravante. Egli ha il preciso compito di disvelarlo, l’occulto. E può farlo sol che abbia acume, cultura ed intuito a sufficienza; e molti ce l’hanno, e dunque perché non lo fanno?
Ma torniamo a Saviano che può insultare un Ministro della Repubblica – dandogli del buffone e del malavitoso – senza che nessuno si senta in dovere di fare un plissè. Né le istituzioni (Salvini ormai è un topos letterario: il simbolo semovente della ‘cattiveria’, del ‘razzismo’, dell’’egoismo’ come scrive l’illuminata penna del Sommo Saviano) né soprattutto gli altri intellettuali. I quali si sono schierati, lancia in resta, a difesa del loro ‘compagno’ in nome della discutibilissima faccenda della ‘scorta’. Anche in questo caso, tra il dito e la luna, essi hanno scelto il dito. Per fortuna che ci sono. Così non abbiamo solo un grande intellettuale; abbiamo anche quelli di scorta.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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