Una domanda affascinante per chi si occupa di attività formativa, di dottrine motivazionali, di teoria e pratica delle tecniche della comunicazione è se sia possibile coniugare una visione realistica del contesto in cui viviamo (con tutti i suoi problemi e le sue insopportabili contraddizioni) e un approccio mentale positivo e ottimista rispetto alla nostra esistenza personale. È un quesito che mi viene posto spesso perché, sia nel blog che negli articoli, mi soffermo sulla prima delle due dimensioni, quella che riguarda la nostra società, le sue dinamiche, le menzogne di cui si nutre, le ingiustizie e le manipolazioni da cui è intossicata. E tuttavia c’è un dato autobiografico non smentibile: vengo (anche) da un percorso nel campo della formazione che mi ha portato a leggere libri, frequentare seminari, tenere corsi su come correggere i modi di pensare disfunzionali, inclinati, per abitudini apprese, verso il negativo. Lo stesso tragitto che mi ha fatto scrivere il saggio I nove semi del cambiamento, ispirato a una filosofia pragmatica basata su un semplice assunto: possiamo, se lo vogliamo, rendere la nostra vita un’avventura entusiasmante. Com’è possibile questa doppia ‘morale’? Come si giustifica lo sguardo pessimista alle cose del mondo e quello fiducioso alle vicende personali? Non si pecca di incoerenza mostrando le macchie che deturpano la luna e, nello stesso tempo, magnificando i prodigi di cui è capace il dito che la indica? In apparenza sì, ma forse no. Soprattutto se muoviamo da un presupposto ‘scandaloso’ come quello che traspira dalle pagine di tutti i più grandi esponenti di ampi settori della psicologia cognitiva e comportamentale della fine del ventesimo secolo e dell’inizio del nuovo millennio. Mi riferisco al postulato per cui, in effetti, il ‘mondo’ non esiste davvero, se non come ‘fondale’ che ospita un’infinita pluralità di mondi: tante realtà, tante ‘mappe’ quante sono le teste delle persone che lo abitano. Quindi c’è un teatro delle faccende umane, sommariamente condiviso, di cui si parla coram populo, a cui si accede connettendosi ai media. Questo palcoscenico ha delle regole, un modus operandi, degli attori protagonisti e delle comparse, vive di prassi e di criteri che maturano in seno alle sue istituzioni e poi diventano senso comune attraverso le leggi, i regolamenti, le direttive che ci troviamo, volenti o nolenti, a interpretare, o a subire. Poi c’è un altro proscenio, quello della nostra mente, dei pensieri che la popolano, delle emozioni che quei pensieri suscitano, delle idee che riusciamo a concepire, degli sfondi che dipingiamo immaginando il futuro prossimo o il nostro più lontano avvenire. Stephen R. Covey, uno dei più noti formatori aziendali, parla, in questo senso, di due sfere: quella di coinvolgimento e quella di influenza. La prima contiene tutto ciò che ci tocca, ma su cui non possiamo intervenire (se non in misura molto marginale): per esempio, la dannata crisi che ci affligge, i processi politico-istituzionali che non abbiamo mai voluto, le entità extra statuali sempre più tentacolari e soffocanti, un’economia strutturata per generare ingiustizie e mettere al centro della sua azione il PIL e la crescita anziché l’essere umano. Insomma, tutto il pacchetto di patemi che ci fanno guardare fuori dalla finestra del nostro minuto e privato giardino a scrutare un cielo fosco e foriero di tempesta. Nell’ambito della sfera di coinvolgimento possiamo fare ben poco per produrre risultati significativi in grado di modificarla. Ciò non implica che dobbiamo ignorarla o fingere che non ci sia, anzi. Le quotidiane denunce che il mio e altri siti tentano di veicolare testimoniano il contrario: va bene tenere gli occhi aperti, è da stolti comportarsi come se il male non esistesse. E però, se è vero che la sfera di coinvolgimento non la sappiamo controllare e manipolare, possiamo invece pilotare e gestire l’altra sfera di cui parla Covey: quella di influenza, comprensiva di tutto ciò su cui riusciamo (siamo chiamati) a operare le nostre mosse. È il ‘magico’ territorio delle scelte individuali: come fare, dove andare, chi incontrare, su cosa concentrarci, che progetti mettere in cantiere ma, soprattutto e prima di tutto, quali pensieri coltivare e su quali prospettive focalizzare la nostra attenzione. Ecco la scoperta impagabile in grado di cambiare molto del nostro presente: possiamo essere spettatori, indignati o sconsolati, nella sfera di coinvolgimento e, nel contempo, attori, risoluti e creativi, nella sfera di influenza. Nella seconda i miracoli realizzabili con l’uso accorto, metodico e intelligente delle nostre risorse interiori non hanno prezzo. È ciò di cui parlano Norman Vincent Peale, Dale Carnegie e altri esponenti del Positive Thinking di matrice angloamericana, oppure Anthony Robbins, Robert Dilts, Richard Bandler, John Grinder, inventori o cultori della programmazione neurolinguistica, o Daniel Goleman, guru dell’intelligenza emotiva, o Vladim Zeland propugnatore della spericolata ma intrigante teoria del Transurfing. Tutti costoro, senza eccezione, fanno riferimento al medesimo concetto, sia pure declinato con sfumature differenti e diversamente attuato sul piano operativo: possiamo incidere nella nostra esistenza personale molto più di quanto crediamo. Il pensiero, rettamente coltivato e indirizzato, è in grado di dare forma e concretezza alla nostra scia spazio temporale, alla nicchia di quel grande mondo universale che diventa poi il nostro piccolo mondo personale. In questo senso, la sfera di influenza che ci spetta in sorte è enorme e, sempre in questo senso, è veridico il detto che la salvezza è ‘individuale’ prima che ‘globale’. Non possiamo salvare il mondo, ma possiamo salvare il nostro mondo conferendogli il significato, lo spessore, l’energia positiva e lo slancio dei nostri sogni. Sintetizzando, a rischio di esagerare, è come se ci trovassimo dinanzi a una stupefacente e caleidoscopica (o schizofrenica) verità. Quanto più scaveremo a fondo nella sfera di coinvolgimento, nel mondo ‘di fuori’, tanto più è probabile che incroceremo le sottostrutture spaventose e inaccettabili della realtà manifesta. Una volta smarrito il vergine sguardo del fanciullo, smascherate le bugie delle versioni ufficiali, persa l’innocenza che ti induceva a credere in una creazione intrinsecamente pura e solo occasionalmente ‘deviata’, avrai l’impressione che tutto possa e debba andare sempre peggio e che, a grattare, non farai altro che svelare la corruzione celata dietro le quinte della storia. Nello stesso tempo, quanto più entrerai dentro te stesso, alla ricerca di ciò che sei e di ciò che ‘puoi’, tanto più è sicuro che ti imbatterai in notizie favolose. Quando smetti di credere che il tuo futuro dipenda dagli eventi e dalle circostanze non dominabili e cominci a volgere la tua attenzione all’insuperabile potenza delle scelte consapevoli e dei pensieri costruttivi, ti parrà che tutto possa e debba andare per il verso giusto e la vita prenderà proprio quella piega, una parabola ascendente destinata alla realizzazione dei tuoi obiettivi. E allora? Dove sta la verità? Cosa fare? È possibile mantenere il piede in due staffe? Certo che sì. Dobbiamo rimanere testimoni lucidi nella sfera di coinvolgimento e attori consapevoli nella sfera di influenza. Osservare e criticare le storture del mondo ‘di fuori’ e, nel contempo, aver cura delle risorse di quello ‘di dentro’. Non ci sono rivoluzioni possibili se non quelle che partono dal nostro universo. E non ci sarà mai alcun cambiamento globale senza una rivoluzione copernicana della coscienza di ciascuno di noi.
Nessun Commento