L’uscita di Beppe Grillo sulla questione del lavoro e della sua irrilevanza, anzi della sua fine addirittura, ha suscitato un vespaio perché è troppo eccentrica rispetto alle nostre pigre abitudini di pensiero. Il capo dei Cinque Stelle ha detto: “Siamo davanti ad una nuova era, il lavoro retribuito, e cioè legato alla produzione di qualcosa, non è più necessario una volta che si è raggiunta la capacità produttiva attuale”. L’affermazione ha suscitato scalpore e rigetto; ben più dei frusti discorsi sul reddito di cittadinanza. Forse perché, rispetto a quest’ultimo, ne costituisce la scaturigine. Il reddito di cittadinanza – diciamo così – sta alla fine del lavoro come il diritto al salario sta all’avvento dell’era industriale. O come gli effetti stanno alle cause. Finora tutti, anche all’interno del Movimento, avevano quasi sempre parlato del reddito di cittadinanza e quasi mai delle ragioni macroscopiche, Storiche con la S maiuscola, che lo giustificavano. Finalmente Grillo ha posto al centro della discussione una prospettiva visionaria. Il fatto che sia visionaria non significa che sia anche falsa. Certamente, essa mette in discussione un tabù indiscusso, forse una delle poche granitiche certezze a cui ancora, come singoli e come massa, siamo soliti aggrapparci: a un certo punto della vita bisogna trovare un lavoro e mantenersi. Lineare, matematico, indiscutibile. Siamo tutti cresciuti con questa convinzione ed è la stessa convinzione che, nella maggioranza dei casi, genera almeno un tremendo effetto secondario: lo spreco della propria migliore età, degli anni d’oro – in attesa dell’orrida vecchiezza e della morte – in attività tanto produttive per il sistema quanto improduttive per l’individuo. Ora, sul fatto che il sistema attuale sia in grado, per via tecnologica e scientifica, di far fronte a una produzione di beni potenzialmente inesauribile e tale da garantire sussistenza all’intera popolazione mondiale non vi sono dubbi. I dati sui prodigiosi surplus dei mercati, sull’ossessiva esigenza di scovarne di nuovi nonchè sui miracoli dell’automazione (madre, guarda un po’, della disoccupazione) stanno lì a dimostrarcelo. E allora perché non accade? Perché il sogno di Grillo non si è ancora trasformato (e non si trasformerà mai) in realtà? Perchè mai non ci è concesso – alla buon’ora e una volta per tutte! – di affrancarci dalla noia e dall’usura di un’occupazione coatta e di investire (sciolti dal giogo del ‘labor’) su noi stessi e sulle nostre priorità esistenziali? Ecco due risposte plausibili. In primis, il lavoro umano (così come la sua occasionale carenza: il lato B dello stesso disco) non ha più solo una funzione produttiva, ma soprattutto una funzione ‘preventiva’, di controllo sociale: serve a tenere quotidianamente impegnate miliardi di persone garantendo loro una sopravvivenza di soglia e conservandone al minimo i giri del motore intellettuale e spirituale. In secondo luogo, la stragrande maggioranza di quelle stesse persone non saprebbe che farsene del tempo libero. Ad averlo, lo sciuperebbe in attività degradanti, viziose o insensate o, peggio, ne ricaverebbe noia e angoscia. Quindi, il lavoro (meglio ancora se malpagato e ben controllato) continuerà a costituire un fardello ineliminabile della vita umana. Serve alle elites per disciplinare le masse e serve pure alle masse per non doversi interrogare sul significato del vivere.
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