Pare che milioni di italiani abbiano, in contemporanea, nell’ultimo trentennio, visto e conosciuto due uomini diversi dal nome uguale e dalle identiche fattezze: il Dottor Jekyll e Mister Hyde; il benefattore e il bandito; l’uomo col sole in tasca e il cavaliere nero. In questo caleidoscopio schizofrenico, Berlusconi ha centrifugato tutti. E forse ha pure fregato tutti. Perché tutti oggi lo considerano “divisivo”, ma nessuno si rende conto di quanto sia stato, in verità, “unificante”.
Infatti – nonostante abbia rappresentato l’arci-nemico della sinistra e dei “comunisti” – egli ne era l’arnese di complemento. Per capirlo dovete guardare le leggi e controllare le date. Silvio scende in campo nel 1994, quando in Italia si è appena concluso un golpe bianco scandito da alcuni epocali passaggi: Tangentopoli e la rottamazione del pentapartito; lo smembramento dell’immenso patrimonio pubblico avvenuto sulla tolda del panfilo Britannia; la legge numero 35 del 29.01.92 con la quale si stabilì la privatizzazione degli enti pubblici economici e la dismissione delle partecipazioni statali da cui discenderà la sostanziale privatizzazione delle quote di Banca d’Italia detenute fino ad allora, da istituti di credito pubblici; la legge nr. 82 del 07.02.92 con cui Bankitalia venne esonerata dall’obbligo di concordare il tasso di sconto del denaro con il Ministero del Tesoro; la firma del Trattato di Maastricht del 07.02.92 con cui l’Italia entrò nell’Unione europea. In pratica, un terremoto del decimo grado della scala Mercalli con cui il Paese fu consegnato, inerme, all’arbitrio dei mercati e della finanza, la sua sovranità monetaria sbriciolata, mentre quella politica “scaricata a 2.000 chilometri dal Parlamento italiano” (come auspicava Beniamino Andreatta in una intervista dei primi anni Ottanta).
Berlusconi fece il suo ingresso nell’arena politica subito dopo che le regole del “giuoco” (come amava dire lui) erano state sovvertite, ma quel “giuoco” evidentemente gli andava a genio. Non denunciò mai i fini reconditi di quella autentica “ghigliottina” da cui era stata appena decapitata la Repubblica, non si intestò un movimento antagonista, realmente popolare e democratico. Non fece un plissè, insomma. Si limitò a dire (e a fare): Forza Italia.
E tuttavia, la più pirotecnica magia di Sua Emittenza fu proprio quella di presentarsi come “divisivo”. Convincendo gli italiani (di destra e di sinistra) di una strepitosa panzana; e cioè che la buona battaglia fosse ancora quella dei cinquant’anni precedenti: la prospettiva liberale contro quella comunista. Il che dissipò le energie, il tempo, la fiducia, la buona fede, le speranze dei suoi compatrioti in una furibonda contrapposizione farlocca, in un teatrino di pupi siciliani, in una disfida di Barletta di cartapesta tra “conservatori” e “progressisti”. Insomma, il nostro diede da bere a tutti (avversari compresi) che la linea di faglia su cui confrontarsi fosse ancora quella cromaticamente accattivante degli azzurri buoni contro i rossi cattivi.
Nella sua narrazione, la trincea da difendere era la stessa su cui, nel 1948, si era battuto Alcide De Gasperi; mentre l’altare dove officiare i riti della cosa pubblica era il medesimo sul quale, nel 1978, fu sacrificato Aldo Moro. Berlusconi potrà essersi macchiato di una miriade di colpe (oltre che intestato innumerevoli meriti), ma l’unica davvero imperdonabile è proprio quella politica: non smascherare mai (come avrebbe potuto, dacché l’aveva conosciuta e compresa) l’agenda dei lavori in atto. E cioè il cronoprogramma micidiale con cui si stava desovranizzando lo Stato tricolore per scioglierlo nell’acido muriatico, ma dolce, di un Superstato sovranazionale con una nuova bandiera tutta blu. Un posto dove avrebbero avuto sempre la meglio i mercati sulle persone, gli stranieri mai eletti sugli italiani elettori, i tecnocrati in grisaglia sul popolo bue.
Il Cav non ci disse mai che quella seducente Unione di popoli “fratelli” era forgiata nel crogiuolo di un progetto sovversivo, elitario e para-democratico nonché “fusa” su un calco neoliberista e anticostituzionale. E neppure che, da allora in poi, di trattato in trattato, il modello politico, sociale, economico keynesiano, disegnato dai padri costituenti del ’48, sarebbe stato smantellato, mattone dopo mattone. Così come non fece nulla all’inizio, quando i “lavori” di demolizione erano appena cominciati, Berlusconi nulla fece neanche dopo.
Il fondatore di Forza Italia, invece, propiziò o avallò – senza fiatare, o addirittura tessendone le lodi – tutte le successive tappe della via crucis nazionale verso il Golgota attuale. Arrivò il 25.03.11 con l’istituzione del MES, il cosiddetto “Fondo salva Stati”; e il 01.04.2012 con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio e la modifica degli articoli 81, 97, 117 e 119 della Costituzione per allineare il sistema di finanza pubblica ai principi della governance economica europea; e, ancora, il 23.07.2012 con la legge di ratifica del Fiscal Compact e l’impegno per lo Stato italiano di comunicare ex ante al Consiglio dell’Unione europea e alla Commissione europea i propri piani di emissione di debito pubblico e di garantire correzioni automatiche con scadenze determinate; e poi il 24.12.2012 e la legge numero 234 istitutiva dell’obbligo, per l’Italia, di recepire, entro e non oltre il 28 febbraio di ogni anno, le direttive e i desiderata dell’Unione europea; e infine la legge numero 243, di pari data ma “rinforzata”, modificabile solo a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, di attuazione del principio costituzionale del pareggio di bilancio.
Tutto ciò accadde (quasi) senza che Berlusconi se ne accorgesse o che lo desse a vedere. L’unica volta in cui, nel 2011, egli palesò qualche segno di impazienza, o addirittura di dissenso, un altro “golpetto” di cannone finanziario lo rimise al suo posto. E da quel posto, l’uomo delle stelle non si mosse più. Anzi, diede prova di aver imparato la lezione dello spread impartita dalla verga della Commissione europea e dalla monitoria disciplina dei mercati.
“Istruito” a dovere, e ammansito il giusto, l’uomo di Arcore tornò, di lì a poco, a dimostrarsi più “popolare” che mai, più “europeista” che mai e, ovviamente, va da sé, più liberale e “anticomunista” che mai. Senza accorgersi, o senza darlo a vedere, che i cosiddetti comunisti erano sempre stati altrettanto “europeisti” (e forse persino più liberisti di lui). In questo senso, Berlusconi non fu affatto agli antipodi di Prodi, ma il suo necessario completamento. Così come l’Ulivo non era l’antitesi al Polo delle Libertà, ma solo un’altra vetrina della stessa bottega. O un’altra coda dello stesso scudiscio, se preferite.
La Prima Repubblica non cadde per la corruzione, ma perché era troppo autonoma e indipendente per “funzionare” nel nuovo contesto neo-coloniale alle viste; in un’epoca (la nostra, purtroppo) in cui gli ordini sarebbero stati diramati da Bruxelles, i soldi sarebbero stati erogati, a discrezione, da Francoforte, le “regole” sarebbero state scritte da Strasburgo.
Ergo, Berlusconi è stato forse “divisivo” dal punto di vista etico, estetico, e cosmetico: lo hanno amato perché era il campione della “libertà” e odiato perché era a-morale o addirittura immorale; lo hanno venerato per il suo sorriso a trentadue carati e detestato per il doppiopetto da padrone e il parrucchino da padrino; lo hanno esaltato perché voleva imporre a tutti il suo “azzurro” ottimismo e deprecato perché lui odiava il “rosso”.
Ma, in realtà – e così chiudiamo da dove abbiamo cominciato – l’iconico leader del centro-destra, dal punto di vista politico, è stato assolutamente “unificante”: si è messo alla testa di milioni di italiani allergici al PCI e alla sinistra e li ha portati nella medesima terra promessa dove Prodi e D’Alema e Rutelli e Bersani e Renzi già stavano conducendo, o avrebbero di lì a breve pascolato, le loro schiere. Un unico immenso popolo traghettato da una Repubblica teoricamente e giuridicamente sovrana a un Possedimento praticamente e giuridicamente sottomesso. Prodi e il Cavaliere – nonché tutti i successivi eredi del primo e temporanei avversari del secondo – sono stati in realtà degli inseparabili compagni di merenda. Il Cavaliere e i Prodi che fecero l’impresa.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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