Sapete cos’era la libera manifestazione del pensiero, nelle intenzioni dei padri costituenti redattori dell’articolo 21 della Costituzione? Un diritto inviolabile. E sapete cos’è la libera manifestazione del pensiero, nelle intenzioni dei padrini dei social network attuali? Uno sgradevole effetto collaterale. E infatti uno dei loro obbiettivi (non dichiarati) è, in realtà, la libera disinfestazione del pensiero critico. Dobbiamo partire da questa constatazione se vogliamo immaginare un mondo diverso. Un mondo che tenda ad assomigliare a quello disegnato dalla nostra Suprema Carta del 1948 e non a quello distopico prefigurato dal romanzo 1984 di George Orwell.
Per capire, dobbiamo intenderci sul concetto di “libera manifestazione del pensiero” in senso costituzionale. Che non riguarda il vantare ciò che abbiamo mangiato in pausa pranzo o lo sbandierare il fresco acquisto, l’ultimo viaggio, il nuovo amore. Queste cose qua sono esattamente gli inessenziali, puerili, inconferenti bla bla bla che a Zuckerberg e ai suoi sodali vanno benissimo. Anzi, lorsignori hanno inventato i “social” proprio e “solo” per questo. Per far esprimere la nostra “pancia” e il nostro “cuore”, così da addormentare la nostra “testa”. Nelle loro (diaboliche) intenzioni, Facebook, Youtube, Twitter eccetera costituiscono solo dei collettori digitali di informazioni personali necessarie per due ragioni: vendere e influenzarci. O, se preferite, venderci “influenze”, tentazioni, inclinazioni da indirizzare poi in una ben precisa direzione.
Un recente documentario dal titolo “The social dilemma” ci dà un eccellente sunto dei veri motivi, delle reali ragioni, per cui ci è stata regalata questa stupenda palestra universale di “espressione del pensiero” dei social network. Essa è gratuita e, come tutte le cose gratuite, ha una spiacevole controindicazione: ci trasforma da produttori di contenuti a prodotti di un (unico) contenuto. Nel documentario citato si spiega come tali strumenti abbiano lo scopo fondamentale di “profilarci”: di ricavare, cioè, da ogni nostro clic, da ogni nostro twit, da ogni nostro scroll una sagoma sempre più perfetta, e dettagliata, di ciò che siamo nell’intimo delle nostre (un tempo insondabili) profondità: gusti, desideri, abitudini, attitudini, vulnerabilità. Essi, in altre parole, grazie alla prodigiosa capacità predittiva degli algoritmi informatici volevano conoscerci – e lo hanno fatto – più di quanto noi stessi ci fossimo mai conosciuti.
Che è poi l’obbiettivo primo e ultimo delle più spietate dittature: mai compiutamente realizzato quanto oggi nell’era della “democrazia” globale. Ma, come abbiamo detto in apertura, c’è un effetto collaterale (non voluto) di questa monumentale operazione di condizionamento individuale e collettivo. Molti “utenti” non si limitano a parlare del pasto appena digerito o a postare acquisti, viaggi, amori. Molti “utenti” si sono messi in testa di manifestare liberamente un pensiero critico sul mondo. Chiamatela analisi politica e sociale, e quindi comprensione e denuncia, se volete.
I social sono così diventati (anche) una “riserva indiana” di intelligenze in libera uscita alle quali è impossibile trovare spazio nei media “ufficiali”, “competenti”, “affidabili” (e sovente corrotti). Ergo, dobbiamo smetterla di limitarci a lamentarci. Quando Facebook o Youtube censurano un Presidente americano o un blogger scomodo, fanno solo il loro porco lavoro. Abbiamo tutti firmato un contratto che glielo consente. Dobbiamo piuttosto pensare a un mondo in cui non solo il potere di farlo gli sia tolto, ma in cui l’area di “pensiero critico” e libero da essi (inavvertitamente) creata divenga di tutti e per tutti.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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