Discorso sullo stato della nostra gioventù. Da un articolo di giornale apprendiamo della tragica sequela di suicidi (tre per la precisione) verificatisi nel breve volgere di un mese e aventi come vittime ragazzini di tredici o quattordici anni. In simili circostanze, è naturale chiedersi il perché e soprattutto cercare spiegazioni che travalichino la contingenza del singolo dato di cronaca. Così da illuminare un intero fenomeno dai connotati atroci e, secondo taluni, in preoccupante aumento. Ecco allora che i cronisti si rivolgono agli psicologi e da uno di essi ricevono risposte meritevoli di chiosa. Nella fattispecie, il dottore interpellato ha fornito alcune chiavi di lettura. La prima è quella secondo cui “queste morti le abbiamo tutti noi sulla coscienza”, la seconda è quella per cui noi adulti i ragazzi “li teniamo troppo stretti” mentre dovremmo “lasciarli andare controllandoli, soffiando sulle loro vele non solo sulle nostre”. Quanto al tema del senso di colpa collettivo che dovrebbe coinvolgerci tutti, è un modo deprecabile, ma purtroppo diffuso, di parcellizzare la responsabilità a livello sociale per sgravarla sul piano individuale. Non è vero che tutti dobbiamo sentirci chiamati in causa. Deve, semmai, fare mea culpa chi – investito del ruolo di genitore, maestro o mentore – sa di aver peccato di omessa educazione. Questa ricorsiva ‘socializzazione del torto’ è controproducente e porta all’autoassolutorio ‘tutti responsabili, nessuno responsabile’. È qualunquismo a buon mercato. E ci impedisce di guardare in faccia le ‘nuove leve’ con cui concretamente e quotidianamente abbiamo a che fare (siano esse figli, alunni o apprendisti). La domanda giusta non è se la società, nel suo insieme, trascura la formazione etica, civica e spirituale del giovane, ma se noi stiamo trascurando la formazione etica, civica e spirituale dei ‘nostri’ giovani. I problemi sollevati da questo dilemma (“sto facendo abbastanza?”) sono poi strettamente connessi all’altra questione affrontata dall’esperto nell’intervista di cui sopra. Cosa vuol dire “dare sogni e speranze” o “soffiare nelle vele” dei giovani? Niente. È un’enunciazione di principio da bacio Perugina. È lo stesso consiglio stolto e inconsistente propinato ai nostri teen agers nei format alla moda, nei talk pomeridiani, nei talent show competitivi del rimbambimento quotidiano: andate dove vi porta il cuore, siate voi stessi, date spazio alle emozioni. È tutta un’epidemia di slogan diretti sempre alla ‘pancia’ dei ragazzi e istigatrice di una deriva sentimentale, di una filosofia della lacrima. Ciò li allontana dall’unica strada in grado di ‘salvarli’ dalla penuria di senso di un’era insensata: la via stretta della elevazione personale, della coltivazione virtuosa dell’intelletto, della ragione e di quella tempra morale in grado di trasmutare l’incostanza puerile in una virile padronanza del sé. I ‘nostri’ giovani non hanno bisogno (solo) di ascolto e di coccole, ma (soprattutto) di ‘comandamenti’ credibili, di auto-disciplina interiore, di quell’etica per un figlio di cui ha scritto Savater. Se poi non li trovano, il problema è nostro, non loro.
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