Da tempo ci si interroga sul progressivo e apparentemente irreversibile svuotamento delle chiese cristiane cattoliche, sull’esodo dei fedeli dalle messe, sulla scristianizzazione della società italiana e dell’Occidente in generale. Per capire, accostatevi ai sacramenti, nel senso lato del termine. Andate a vedere com’è oggi strutturata quella che un tempo si chiamava ‘dottrina’ (o ‘catechismo’) e oggi ‘iniziazione cristiana’. Due episodi per chiarire. Mi è stato riferito da un conoscente che – nell’ambito di un corso di preparazione alla confessione a cui presenziavano i genitori dei piccoli – i partecipanti sono stati suddivisi in due gruppi: uno aveva il compito di perorare la causa della ‘confessione’, l’altro quello di criticarne la ragion d’essere. Poi ci si riuniva in plenaria e si discuteva, si ‘faceva sintesi’, su quanto emerso dal confronto dialettico tra le tesi contrapposte. In una diversa occasione, ho sentito una catechista affermare che non importa come i ragazzi chiamano Dio: lo chiamino vita, lo chiamino energia, lo chiamino spirito, ciò che conta è instradarli verso una sensibilità religiosa. La chiave del discorso è tutta qui: la Chiesa è in crisi non perché scarseggiano i preti (anche se è vero) o perché il Papa attuale fa di tutto per annacquare i dogmi (anche se è vero) o perché i valori correnti e più veicolati dai media sono radicalmente anti-cristiani (anche se è vero). Il motivo di fondo è che gli stessi cristiani hanno smarrito la loro specifica fede. Anzi, per dir meglio, hanno smarrito il concetto di fede religiosa confessionale. La quale consiste, ontologicamente, in una resa senza condizioni a un articolo (di fede, appunto) che si condensa in poche verità non discutibili né negoziabili. O ci credi o non ci credi. Punto. Se inizi a girarci attorno ‘aprendo il dibattito’ come a un cineforum non stai facendo un servizio alla tua religione, stai contribuendo a smontarla. Allo stesso modo, se ti professi seguace di una ‘energia’, di uno ‘spirito’ non stai facendo un servizio al Dio unico e non fungibile della tua fede, ma stai contribuendo a dissolverlo. Il che è legittimo, beninteso, purché tu ne sia consapevole. Può darsi persino sia più contiguo alla verità chi coltiva un approccio sincretistico, o di generico panteismo, al problema della trascendenza. Non è questo il punto. Il punto è che collocarsi in una prospettiva panteistica, gnostica, sincretistica dove tutte le religioni si equivalgono, ciascuna ha qualcosa da insegnare, in un paradossale processo di democrazia delle credenze, è una cosa ‘altra’ rispetto al professare una fede. Oggi, in molte parrocchie, non si insegna più la fede, ma ci si interroga, piuttosto e volentieri, sulla solidarietà, sull’apertura al prossimo, sull’ecumenismo, sui cambiamenti climatici e sulla pace nel mondo. Tutti temi interessantissimi, ma che con la fede, con la dirimente e ‘drammatica’ questione messa in campo dalla fede (e cioè se dire sì o no a quello specifico Dio incarnatosi in Cristo, nel caso dei cristiani) non c’entra nulla. È un processo sociologicamente interessante che finisce per accomunare molti cristiani agli atei e egli agnostici in un abbraccio ‘infedele’, nel senso di allergico alla ‘fede’ rettamente intesa come sopra: gli atei non credono, gli agnostici non sanno se credere e i cristiani non sanno in cosa credere.
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