Appena iscritto all’Università, appresi la regola aurea di ogni matricola: partire morbido, con un esame semplice. Una prova scaldamuscoli, diciamo, giusto per vantarsi di aver sverginato il libretto. E magari covare l’illusione che la facoltà di legge fosse alla portata di un liceale cresciuto a pane e lettere classiche. Ci voleva la materia giusta, però, tipo l’educazione civica delle scuole medie. Quella materia era filosofia del diritto e quasi mai deludeva le aspettative. Argomenti discorsivi, poca memorizzazione e tanto ragionamento, piacere della dialettica e riscoperta della didattica: il godere del vincere facile. Alle viste, però, ben altri codici, ben altri tomi, ben altri prof rispetto a quelli amabili e socratici di quell’esame che, come il primo amore, non si dovrebbe scordare mai. E invece accade il contrario. La filosofia si scinde dal diritto e scompare. Essa è la sepolta viva, l’eterna dimenticata dei nostri percorsi accademici. Il segno di questa amnesia collettiva e selettiva, di cui avvocatura e magistratura soffrono in pari misura, è nella crisi non detta, non raccontata, dei protagonisti delle aule giudiziarie. Per dir meglio, è nella loro difficoltà di cogliere il senso del proprio operato, di capire dove il loro mondo codificato (specchio riflesso e ordinato del caotico mondo di fuori) sta andando, perché lo fa e, soprattutto, a beneficio di chi. Alcuni episodi recenti confermano l’impressione. A Lodi, un sindaco finisce in galera per un reato definito gravissimo dalla stampa nazionale. Si chiama turbativa d’asta, si sostanzia nell’aver favorito, assegnando un appalto per una piscina comunale, una cooperativa partecipata dal comune. Ora, la violazione della legge penale c’è, dura lex sed lex eccetera eccetera, ma i soggetti coinvolti a vario titolo nella vicenda (in qualità di accusatori, incolpati, giudici, cronisti, lettori) si sono posti le domande giuste? Su un piano squisitamente giuridico, sì, su quello metagiuridico, trascendente il grezzo dato positivo della norma e della sua interpretazione, assolutamente no. Perché le domande giuste erano di natura filosofica, ma la filosofia è la bella addormentata nel bosco delle sale universitarie dove si forgiano le toghe. Ergo, un approfondimento filosofico della faccenda si presenta, agli occhi dei più, come inattuale e inutile. Non c’è tempo, non è tempo. Non serve. C’è una norma, c’è un reato, c’è un colpevole, magari un reo confesso, basta applicare la pena, oliar gli schiavettoni e vergare un elzeviro sul politico brutto, sporco e cattivo. Se, però, volessimo indagare la cosa in termini a-normali, ci accorgeremmo che il pasticciaccio brutto di Lodi è soprattutto un segno dei tempi, aldilà degli aspetti contingenti e penalmente rilevanti del fatto spicciolo in sé. Il Sindaco ha agito con l’intenzione di favorire un soggetto pubblico a discapito di uno privato, ha infranto le regole turbando un’asta. Ha peccato in modo non veniale, ma dovremmo interrogarci sui lontani principii donde scaturiscono le regole che egli ha violato più che non sulla specifica azione delittuosa. Perché quelle regole, quel reato dal nome fascinoso e postmoderno, turbativa d’asta, ci parlano dei nostri anni, della nostra storia, delle nostre vite, di un sistema divorato dall’ideologia mercatista dove ogni cosa del vivere civile si riduce, per l’appunto, a un’asta in cui ha da vincere il più competitivo, non il più idoneo a soddisfare gli interessi di una comunità. Ergo, l’idea di una piscina comunale (cioè di tutti) a cui provvede il Comune coi soldi del Comune, fa ridere i polli, è roba da archeologia pre-industriale. In questo sistema, un politico (e parliamo di un politico onesto, volutamente ignorando Lodi e il suo sindaco) è giocoforza fuorigioco, a prescindere dalla sua inettitudine al furto e alla furfanteria. Il politico, per vocazione, dovrebbe curare i bisogni della sua polis, cioè della dimensione pubblica, collettiva e condivisa (non a caso, chiamiamo comune il territorio di competenza di un primo cittadino). Una dimensione esulante i ritorni contabili degli attori che, in quel territorio, perseguono fini di mero lucro o di puro capitale. Sennonché, il mero lucro e il puro capitale sono il lessico, la grammatica e la sintassi dell’uomo contemporaneo, l’unico esperanto universalmente inteso e compreso. Soprattutto dagli uomini di legge, quelli che poi applicano pedissequamente, e rettamente, i codici e infliggono la rigida pena. Gli stessi applauditi, nell’ordine, dal giornalista fanatico dell’asta, dall’elettore incazzoso col governo ladro e dai feticisti della competitività e del progresso. Ma Lodi è solo uno degli episodi rivelatori. Poi c’è Trani, dove la Procura ha aperto un’inchiesta mettendo sotto accusa i vertici di Deutsche Bank per aver venduto allo scoperto, nel 2011, sette miliardi di titoli del debito pubblico italiano generando lo tsunami finanziario che travolse Berlusconi. Anche in questo caso, emerge una sovrabbondanza di diritto positivo e una penuria di filosofia. I magistrati portano avanti un’inchiesta dove l’accusa ai vertici della banca teutonica è quella di aver tenuto ‘condotte manipolative del mercato di tipo informativo-operativo alterando la regolare formazione del prezzo di mercato dei titoli di stato italiani’. Come in quel di Lodi, il problema è la lesa maestà, non la lesa democrazia. L’obiettivo, raggiunto con un meticoloso e inappuntabile procedimento di sussunzione dei comportamenti concreti negli astratti predicati delle norme penali, è quello di perseguire e punire la molestata quiete delle divinità dell’Evo competitivo (le Borse) così come a Lodi viene sanzionata la turbativa dell’unico criterio di selezione del Bene Comune oggi tollerato: quello dell’asta. A Lodi parliamo di micro politica di quartiere, a Trani di macropolitica di sistemi complessi, ma la sostanza non cambia. Il fatto che la dismissione dolosa di titoli del debito pubblico abbia innescato la ghigliottina di un governo legittimato dal voto popolare (l’ultimo che si ricordi) diventa una quisquilia interessante a quattro gatti. Sicuramente filosofi. Probabilmente non giuristi. Certamente non magistrati. La storia di Lodi, in controluce, ci ammonisce a non scherzare con il fuoco. Sono finiti i tempi in cui la priorità dei gestori della cosa pubblica era la salvaguardia della cosa pubblica. La storia di Trani, invece, è la cartina di tornasole di un mondo in cui criminale non è il sovvertimento della democrazia, il colpo di stato per conto terzi, il golpe bianco, ma il tradimento della trasparenza delle regole di formazione dei prezzi del mercato. E la nostra era, afflitta dal cretinismo economico di gramsciana memoria, partorisce zelanti esecutori di un piano, di una trama, di un ordito così complessi da impedire all’im-potere politico di vedere, all’ordine giudiziario di capire, ai rappresentanti di entrambi di cogliere le linee d’azione meta giuridiche, e i conseguenti punti di caduta, delle norme sfornate dalla Matrice. Lo sappiamo che stiamo sbagliando. Lo sappiamo che siamo fuori squadra. Lo sappiamo che le indagini di cui sopra sono sacrosante perché applicano il diritto vigente. Sappiamo di avere giuridicamente torto nella lettura proposta dei fatti analizzati. Allo stesso modo, sappiamo di avere filosoficamente ragione. Come dimostrano le parole, dissonanti rispetto alla nostra lettura, ma in piena sintonia con l’etica corrente, del nuovo presidente dell’associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, il quale ha dichiarato che i politici non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi. Può darsi, ma pochissimi, tra gli operatori del diritto, possono oggi dichiararsi esenti da una colpa ben peggiore: quella di aver smesso di interrogarsi, di ragionare, di capire chi (e per conto di chi, e in vista di cosa) davvero scrive le regole del gioco che poi i giudici per bene applicano così bene. In altri termini, di aver smesso di vergognarsi di aver smesso di filosofare.
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