Il Giornale ha interpellato un ex generale degli alpini, Carlo Cabigiosu, già operativo in Irak, sulla eventualità e sulla fattibilità di un intervento di terra per debellare lo Stato Islamico. Ecco il responso: “Settanta-ottantamila uomini possono bastare per un intervento di terra. Poi bisogna tenere pronta una robusta riserva di altri venti-trentamila soldati”. Per l’ex generale Carlo Jean potrebbero bastarne quarantamila perché “gli effettivi del califfato non sono così numerosi”. I vertici militari sanno benissimo e dicono altrettanto bene ciò che le cupole politiche fingono di ignorare. E cioè che, probabilmente, un attacco hard sul suolo del nemico nero annienterebbe le basi del medesimo. Non basta, dite? Forse no, però se continuano a predicarci che siamo in guerra, uno potrebbe rispondere che tanto vale farla davvero e qualsiasi testo di strategia militare insegna che decapitare territorialmente un avversario è già un bel modo di portarsi avanti col lavoro. Questo non eliminerebbe definitivamente il problema perché il problema sta nell’incancrenirsi di un odio religioso non germogliante nel terreno, ma nella testa di chi è disposto ad immolarvi la propria vita oltre a quella degli odiati antagonisti. Tuttavia, se incenerisci la nave madre di una flotta aliena di invasori, poi le singole scialuppe di supporto faranno molta più fatica a organizzarsi e a organizzare attentati epocali come l’undici settembre o come il tredici novembre. Eppure, nulla pare muoversi in questa elementare direzione. Nazioni un tempo paladine vigorose della libertà e della democrazia, Repubbliche Platoniche del Bene che allestivano carneficine dal suggestivo nome di desert storm contro gli Assi del Male, oggi indugiano più del Sior Tentenna. Persino i francesi, capaci di sguinzagliare i Mirage contro Gheddafi senza fare un plissé e ora colpiti al cuore, giocano alla guerra col bilancino: un bombardamento qui, uno lì, tutte traiettorie intelligenti come le famose bombe addomesticate e buone. Buone a sterminare, a spanne, quasi un milione di persone nelle campagne di terra d’Irak e Afganisthan degli ultimi anni di primavere Arabe e terzomondiste. E allora, come la mettiamo? Vien quasi il dubbio che una guerra permanente (non durerà meno di trent’anni, quindi correte a rifornirvi di derrate ai supermarket) è meglio di una botta e via. Come se tutto ciò che avvicina alla soluzione fosse poco realistico, poco pratico. O poco funzionale? Quasi che combattere per destabilizzare sia permesso, mentre combattere per stabilizzare sia proibito. Magari è giusto così. Siamo figli di gente colta che ha studiato Eraclito: il bene non si regge senza il male, quindi teniamoci il male che ci fa così bene.
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