Mi è capitato di imbattermi in una copia di un giornaletto per ragazzi, edito dalla San Paolo, con la pubblicità di un libro di cui non ricordo il nome, ma il concetto sì. In sostanza, l’opera ha come messaggio cruciale quello di sostituire i ponti ai muri in una società dove si edificherebbero troppi muri a discapito dei ponti. Perché mi ha colpito? Dopotutto, è una pubblicazione abbastanza periferica della pubblicistica cattolica progressista. Può darsi; ma quella pagina, così suggestiva, ha una caratteristica inquietante, tanto più perché rivolta a un pubblico di bambini, giacché sunteggia in due righe una delle mitologie manipolatorie da cui scaturiscono – concatenati alla stessa in modo magari non evidente, ma certissimo – alcuni dei precipitati nefasti della civiltà globale. Ci riferiamo alla retorica della ‘connessione’, del ‘dialogo’, della ‘apertura’, della ‘solidarietà’ tra popoli, religioni, tradizioni. Essa va di pari passo con un’altra convinzione dei perbenisti, anzi dei ‘perbuonisti’, del terzo millennio: quella secondo cui il termine ‘muro’ è necessariamente negativo mentre il termine ‘ponte’ è sicuramente positivo: il muro – ci ammoniscono costoro – divide laddove il ponte unisce. Quindi, abbasso i muri, cattivi, e viva i ponti, buoni. Nell’armamentario dialettico di questa scuola di pensiero fermentano anche altri luoghi comuni a cui attingono, a pieno inchiostro, le penne di alcuni intellettuali di punta. Per esempio: ‘bisogna combattere la paura del diverso’; oppure: ‘basta con l’ostilità verso l’altro’; o, ancora: ‘smettiamola di erigere barriere’. Ora, c’è da interrogarsi su questa fobia per i muri e su questa premurosa sollecitazione a costruire ponti. Perché? Dopotutto, il povero muro è uno dei simboli più belli e uno dei luoghi (anche fisici) più rassicuranti della nostra vita, è il catalizzatore simbolico di tutte le nostre sicurezze più care e meno rinunciabili, sia sul piano individuale che su quello collettivo. Lo dice la nostra storia e lo racconta la storia dell’uomo. Si nasce e si cresce sotto il tetto e tra i muri di una dimora familiare, poi si diventa grandi e ‘si mette su casa’, spesso con una persona cui si vuol bene, e il più vivo desiderio – soprattutto nei periodi di crisi – è quello di ‘tornare a casa’ o di avere un giorno ‘una casa dove arrivare’. Quattro mura, appunto. E la stessa vicenda umana è costellata di pareti divisorie: dalle capanne alle grotte, dalle palafitte alle baracche, dai palazzi ai castelli. Il muro delimita la nostra proprietà materiale e immateriale, conferisce una piccola circonferenza prossemica al nostro io personale sui cui raggomitoliamo e da cui dipaniamo, come intorno a un fuso, il senso e il corso della nostra stessa identità ‘differente’. Il muro protegge dagli estranei? Certo, così come può includerli, visto che è sul concetto di muro che si fonda l’idea primordiale di ospitalità. Senza mura non c’è neppure l’accoglienza tanto cara al perbuonista di maniera. Però i confini salvaguardano le diversità. E le diversità ostacolano il progetto di un’unica civiltà globale accarezzato dalla Matrice. Sui ponti, invece, ci fan passare le merci. Ecco spiegato l’odio postmoderno verso il muro. Triste che persino i giornalini del patronato si prestino, senza accorgersene, a fargli da cassa di risonanza.
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