Sono giusto cinquant’anni dagli scontri di Valle Giulia, a Roma, del primo marzo 1968 e quasi altrettanti dal cosiddetto maggio francese. Per farsi una vaga e tangibile idea dell’abisso di tempo che ci separa da quei giorni infuocati basti pensare che è pari a quello intercorso tra la fine della Grande Guerra e, appunto, il mitico Sessantotto. Facciamo una commemorazione? Facciamola, provando ad andare al cuore della faccenda e tentando un ardito parallelismo con la contemporaneità. Innanzitutto, va messa in campo una categoria anagrafica più che non sociale. I fautori della contestazione sessantottina, gli organizzatori dei casini di contorno e degli scontri all’arma bianca con le forze dell’ordine non appartenevano a una classe sociale, ma a una classe d’età. Erano giovani e, più precisamente, studenti, in prevalenza universitari. I motivi della loro ‘insurrezione’ (che poi sarebbe sfociata negli anni di piombo) non erano di natura economica e sociale, se non per qualche tributo (più che altro di facciata) al marxismo e alla rivoluzione culturale cinese. Quegli studenti protestavano contro un sistema sclerotico, contro una mentalità piccolo borghese, contro le incrostazioni baronali delle accademie e rivendicavano soprattutto più libertà per se stessi: sotto forma di allentamento dei costumi, di promiscuità sessuale o di sperimentazioni psichedeliche. Il famoso slogan ‘l’immaginazione al potere’ rende bene l’idea. Eppure, quei giovanotti vivevano anche in una delle aree del mondo (il cosiddetto Occidente, nel suo versante continentale europeo) con il più esteso, articolato e diffuso modello di tutele sociali della storia. Tra gli anni Sessanta e i Settanta, lo schema keynesiano e progressista di una gestione politica dell’economia raggiunse il suo acme. Ma l’onda lunga della protesta voleva ben altro e ben oltre. Reclamava più diritti individuali che diritti sociali. Veniamo all’oggi. La situazione si è capovolta. L’Europa si è tramutata nell’area del mondo in cui più avvertita, ampliata e sensibile è l’attenzione per i cosiddetti ‘diritti civili’: dalla scelta di un’identità sessuale all’ossessione per la parità di genere, dall’autogestione del fine vita con annessa possibilità di darsi la morte (eutanasia) all’autogestione del suo inizio con annesso diritto di infliggerla (aborto), non c’è ambito del vivere in cui non trionfi proprio quella mentalità squisitamente narcisa ed egotica che contrassegnava le pittoresche e anticonformiste proteste giovanili del Sessantotto. Nello stesso tempo, però, viviamo in una società in cui le guarentigie e le protezioni sociali su cui quei giovani potevano contare sono state sbriciolate nel nome di un culto darwiniano per la competizione e la crescita (cioè per la preminenza del più forte) su cui si regge l’intera struttura istituzionale dell’Europa Unita. È il trionfo dello schema reazionario ed eversivo della gestione economico-finanziaria della politica. Aldilà del perfetto sovvertimento dei fattori, una domanda si impone: cosa manca rispetto a quei giorni? E la risposta è: la verve rivoluzionaria dei giovani; che nel Sessantotto non era necessaria, ma ci fu. Oggi, invece, servirebbe come il pane. E manca.
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