E alla fine arrivò il manifesto. Il manifesto era una prassi abbastanza diffusa negli anni settanta. Consisteva in un appello – in genere divulgato dalle pagine di un grande quotidiano – con il quale i grandi intellettuali facevano conoscere i loro grandi pensieri al popolo. Indimenticabile l’appello contro Calabresi, per esempio. Pensavamo che lo strumento fosse caduto in definitivo disuso e invece è di qualche giorno fa l’iniziativa di alcuni accademici i quali ci sono ricascati, riesumando una tradizione di cui non si sentiva granché nostalgia. Si tratta di trentacinque filosofi – facciamo professori di filosofia, che è meglio – i quali hanno avvertito il bisogno di richiamare all’ordine gli italiani in materia di diritto di cittadinanza agli stranieri. L’aspetto stupefacente dell’invocazione, peraltro, non sta nella penuria di ragioni giuridiche del loro scritto (il che è anche perdonabile, trattandosi di maestri del pensiero, mica del diritto), ma piuttosto nella latitanza di ragioni filosofiche. Quantomeno se siamo tutti d’accordo sul fatto che la filosofia ha (anche) a che fare con la precisione concettuale e con il retto modo di ragionare. Ebbene, l’appello parte con la seguente constatazione: “Sono tanti gli adolescenti giunti nel nostro paese che, dopo aver frequentato le scuole italiane per anni, attendono un concreto segno di ospitalità”. Primo errore da matita rossa. Il diritto di cittadinanza non è un segno “concreto”, semmai “astratto”, molto astratto, intangibile anzichenò, immateriale potremmo aggiungere, a voler cavillare. Gli adolescenti stranieri italiani, di segni “concreti” di ospitalità ne ricevono già a caterve ogni giorno: in primis, la possibilità, sacrosanta, di sedersi sui banchi di scuola dei loro coetanei italiani, di essere visitati, alla bisogna, dagli stessi dottori, di godere d’ogni altra “concreta” forma di assistenza riconosciuta alla gioventù indigena dimorante nel belpaese. Veniamo al concetto di “ospitalità” (“possibilità offerta a qualcuno di alloggiare o di risiedere temporaneamente in un luogo, diverso dalla propria casa o dal proprio paese, in quanto manifestazione di generosità, cortesia, o benevola tolleranza”). Da quando in qua, il termine anzidetto implica come “generosa” conseguenza anche la concessione del diritto di cittadinanza? La cittadinanza è una prerogativa “preziosa” e, in quanto tale (per sua quintessenziale natura), non agevolmente rilasciabile, tantomeno a un soggetto cui stiamo già “generosamente” permettendo di alloggiare a casa nostra. Ma andiamo avanti. I professori scrivono che la mancata approvazione della legge “sarebbe una sconfitta prima di tutto per noi che ci definiamo italiani eredi della tradizione umanistica”. Strano. Proprio il fatto che ci definiamo “italiani” è già il segno di una marcata differenza identitaria rispetto a coloro che non lo sono. Quindi, la gratuita e lasca elargizione di questo privilegio (la “cittadinanza”, appunto) non è una vittoria, ma semmai una sconfitta per gli italiani medesimi; e ciò proprio in quanto “negligente abdicazione” alle ragioni giuridiche che sanzionano il senso profondo della nostra identità nazionale. Rendere difficile – o almeno non troppo facile – accedere alla cittadinanza, è un dovere verso noi stessi. E anche verso la nostra ascendenza “umanistica”. La quale scaturì, non a caso, da un’epoca – quella di comuni e signorie – di geloso attaccamento al proprio campanile.
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