L’evangelico incipit secondo cui in principio era il Verbo contiene una verità che trascende l’ambito religioso: l’uso sapiente delle parole consente il governo del mondo e dei processi storici. Pensate al termine “consumismo”. Il consumismo, cioè il consumo di beni e servizi, si è trasformato – nel breve volgere di qualche decennio – da un concetto tendenzialmente negativo a un autentico idolo indiscusso della società di massa. Un tempo la gente consumava volentieri in un contesto in cui diverse agenzie con vocazione, per così dire, educativa gli ricordava di non esagerare, di contenersi. Il prete in chiesa, il funzionario di partito, il giornalista impegnato criticavano la società dei consumi perché, appunto, gretta e materialista. L’ossessione dell’acquisto rischiava di soffocare lo slancio ideale, la tensione morale delle persone.
Da quei tempi sembra passata un’era geologica. Il consumismo non fa più schifo e, infatti, ha cambiato nome. Intanto, gli hanno tolto di dosso quell’imbarazzante “ismo” che si appioppa anche e soprattutto alle robe brutte, rozze e volgari. Il suffisso “ismo”, per esempio, ha ormai adulterato il concetto di “popolo” che – da parola costituzionalmente nobile e fondante della nostro senso di appartenenza civica e patria – si è tramutata in vocabolo della superficialità e di ogni peggiore istinto: “populismo”. Il consumismo, invece, si è rifatto una vita. Grazie soprattutto a un’operazione di cosmesi semantica. La cosmesi è l’arte di migliorare l’estetica. La semantica è la scienza dei significati da dare alle parole. Oplà: il consumismo non solo perde il suo “ismo”, ma diventa “crescita”. Pensate alla potenza evocativa di questa parola. Il lemma crescita esprime, per definizione, un concetto positivo. Ci parla di innalzamento, miglioramento, evoluzione. Nel nostro vocabolario esistono pochi termini altrettanto suggestivi, in grado di suscitare emozioni parimenti tonificanti e positive. Parliamo, in definitiva, di un ingegnoso trucco retorico per cambiare la reazione emotiva e la percezione del mondo delle persone. Insomma, come sempre il verbo, e l’uso accorto di esso, è la chiave per diversamente indirizzare l’andamento delle cose. Il consumo, che fino al secolo scorso era un’attitudine da disciplinare per non degradare l’uomo a un bovino, oggi è diventato “crescita” ed è il totem assoluto cui sacrificare ogni altro valore sociale. Le più alte istituzioni, e persino gli eredi della sinistra classica e la Chiesa stessa, lo additano come la stella polare cui tendere per conservare il diritto ad esistere. Infatti, se uno stato non cresce può anche fallire.
Ma c’è persino un paradosso nel paradosso. Ai tempi in cui il consumismo soffriva di una cattiva propaganda, a beneficiare dei suoi frutti positivi erano soprattutto i meno abbienti: larghi strati popolari, in ascesa da posizioni molto basse ad altre più confortevoli e intermedie della scala sociale. Oggi che il consumismo ha completato la sua trasmutazione in “crescita”, i destinatari dell’implementazione del PIL sono i vertici della cupola. Siamo regrediti a forme arcaiche di strutturazione piramidale della società con una sconfinata marea di persone impossibilitate a sperare in un miglioramento delle proprie condizioni; di contro, vi è una selezionatissima elite felicemente impegnata ad accumulare le risorse sottratte alla maggioranza. Questa è la crescita cui puntano quando vi fanno la morale sulla “crescita”.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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