C’è una “bella” parola, e corrisponde a un “bellissimo” valore, che forse dobbiamo cominciare a riconsiderare per il nostro bene, cioè della società tutta e del benessere individuale. È la parola “meritocrazia”. Se dovessimo scegliere la “virtù”, per eccellenza, del secolo, non ce ne verrebbe in mente una di più appropriata. Oggi bisogna essere meritevoli anche solo per cavarsela – e dico cavarsela – nell’epoca della competitività e della crescita. E quindi anche il senso di “meritocrazia”, senza che ce ne accorgessimo, è mutato e si è trasformato in un’arma a doppio taglio che sta affettando l’equilibrio psichico, il senso morale, il bisogno di identità della gente comune. Una volta, infatti, quando parlavi di meritocrazia, intendevi semplicemente la necessità di premiare qualcuno in base al merito e non in virtù del censo, delle conoscenze, delle scorciatoie illecite. Quindi, il merito era qualcosa di sacrosanto e di accessibile a chiunque perché non corrispondeva al talento, ma all’impegno. L’implicito sottotesto della parola meritocrazia era: un sistema dove – qualunque fosse il tuo corredo genetico di partenza e l’X factor di cui tu fossi, o non fossi, dotato – se ci davi dentro potevi trovare la tua strada.
Oggi, invece, il “merito” non è più calibrato sull’intraprendenza personale e sulla voglia di lavorare, a prescindere dalle doti personali. Esso è collegato, piuttosto, proprio alle qualità innate. Quindi, meritocrazia significa che merita di farcela chi ha (tantissimo) talento. Gli altri si arrangino, e arranchino. Ed è la ragione per cui spopolano programmi che “premiano” bambini e adolescenti con la voce di Elton John, le movenze di Nurejev, la disinvoltura di Fiorello. Insomma, per farcela non basta neanche essere dotati, bisogna essere super-dotati. L’epoca esige un tributo di “sangue” al Moloch del Successo e della carriera (persino di carriere ordinarie). È accaduto tutto così in fretta che non ce ne siamo accorti? Forse. Di sicuro, chi ha promosso e implementato questo modello di società se n’è accorto benissimo. Ed è per questo che pullulano genitori iper-competitivi i quali non esigono che i figlioli semplicemente ottengano una buona pagella, ma vogliono che i pargoli manifestino precocemente i sintomi di una futura primazia, a trecentosessanta gradi, in qualche campo, possibilmente assai remunerativo, del vivere. Ed è sempre per questo che lodiamo, in quanto meritevoli, i giovani tri-aureati, iper-specializzati, plurilingue destinati a girovagare come globetrotter da una parte all’altra del pianeta per trovare una nobile collocazione nella “meritevole” piramide delle nuove gerarchie sociali.
Ovviamente, questo tipo di “merito” richiede anche l’operosità da cui era connotato il vecchio “merito”: l’essere meritevoli a valle, per così dire, e a prescindere dal possedere le capacità di un top player. Ma esso esige, preliminarmente, una intrinseca superiorità a monte: cioè l’essere già, grazie a madre natura, dei superuomini. Il che ci conduce a dama: siamo approdati a una civiltà elitaria, tanto quelle (se non più di quelle) del passato. Con una differenza sostanziale: gli esclusi dalla “festa” riservata a chi riesce a conquistare indipendenza economica e soddisfazioni materiali sono molto più numerosi di un tempo. Ma quelli di un tempo trovavano comunque una propria collocazione in qualche comunità di riferimento (familiare o sociale) che se ne prendeva cura e forniva dei valori alternativi e soprattutto “significativi”. Oggi gli esclusi vanno alla deriva come particelle elementari e precarie, atomi spaesati in un universo senza senso.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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