Warning: questa è una fake news. Il PD ha deciso di fare le cose in grande e di ripartire, innanzitutto, dal simbolo. Bisogna collocare sotto il logo del partito uno slogan che risponda a una precisa, e amletica, domanda: noi cosa siamo? Lo staff del marketing che gli cura il brand così da renderlo trendy e in grado di intercettare una vision e una mission in sintonia con il mood di una vera start-up della politica 4.0 ha avuto un’idea very cool. I capoccioni hanno radunato in un palasport diecimila funzionari di partito, l’intera classe dirigente. E hanno deciso di fare, per una volta, i veri democratici rimettendosi alla gente.
Dopo una serie di severissimi provini, hanno selezionato un campione rappresentativo della popolazione italiana composto da tre cavie: un anziano, una casalinga e un giovane. E gli hanno rimesso la decisione. Per primo sale sul palco un partigiano, in garibaldina camicia, che così arringa la platea: “Operaie e operai! Ci ho a lungo pensato e io scriverei… siamo proletari”. Dal pubblico, un immediato brusio seguito da un’assordante selva di fischi: “Comunista! Qualunquista! Stalinista! Vergognati!”. Il nonno è sotterrato all’istante da quintali di pomodori che attingono di rosso verace la sua rossa divisa. A questo punto si fa avanti la casalinga – non è di Voghera ma va bene lo stesso – e, afferrato il microfono a due mani (tremanti), posate a terra le borse della spesa, azzarda: “Io scriverei… siamo popolari”. Non l’avesse mai detto. Il palazzetto si trasforma in una bolgia infernale di ululati di disapprovazione: “Populista! Pauperista! Nemica della crescita! Pensa al pareggio di bilancio, disgraziata!”. E dalle braccia tese del pubblico, come dalle leve armate di una catapulta, una caterva di banane grandina sulla malcapitata madre di famiglia che, raccolte le sue sporte, si dilegua pattinando ignominiosamente su un tappeto di bucce giallonere. È il turno dello studente il quale, per nulla intimorito, guadagna il centro della scena e, con l’incosciente energia della sua precaria gioventù, urla: “Ascoltatemi, due sole parole di dignità nazionale per una nuova sinistra: siamo italiani!”. L’anatema si abbatte sull’incauto, eruttando, all’unisono, da migliaia di ugole: “Nazionalista! Sovranista! Fascista! Disfattista!”. Una gragnuola di uova – sode e meno sode, marce anzichenò – frana dall’alto, imbrattando le giovanili passioni del minorenne temerario ridotto alla fuga e inseguito dai dobermann della security.
Si è fatta ormai sera, il sol dell’avvenire si spegne sui tetti metropolitani, uno scoramento diffuso alligna nei petti della classe dirigente democratica. Affranti i volti, spenti gli ardori, languidi i sospiri. Si legge, negli sguardi persi di una generazione di fenomeni, un’orribile parola – ahimè, non competitiva –: sconfitta. Ma all’improvviso, un tizio in grisaglia, occhiali scuri e modi sicuri, sale sul proscenio e alza le mani intimando il silenzio: “Compagni!” esordisce, “non disperate, io sono un funzionario anonimo della Commissione Europea, ho lavorato per Goldman Sachs, sono stato consulente del movimento En Marche del grande Macron, gestisco un fondo speculativo con tripla A di Fitch e collaboro, nel tempo libero, con la Trojka. E ho la soluzione!”. Un silenzio ammirato fa da cornice alla sua proposta: “Lo slogan giusto per voi è: siamo europei!”. Un boato di approvazione scuote il Palasport. Mozione approvata. E parte la ola al grido di: “Chi non salta italiano è, è! Chi non salta italiano è, è!”.
Francesco Carraro
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