L’altra parola cruciale per capirci qualcosa, in tutto l’immenso casino che c’è, è “cambiamento”. Anche questa, se ci fate caso, ha un connotato eminentemente positivo. Alzi la mano chi, nel sentirla pronunciare, non pensa, per un riflesso condizionato, che si tratti di qualcosa di buono e di giusto. È logico. Un lavaggio del cervello ultradecennale ci ha persuasi che il cambiamento sia di per sé, in quanto tale, lodevole. Il che, per certi aspetti ed entro certi limiti, può anche essere vero. Dopotutto, è la cifra stessa della vita: il divenire. Ed è la base di ogni conato filosofico. La filosofia è nata proprio per trovare una bussola, un’ancora, una scialuppa di salvataggio contro la paurosa imprevedibilità del tempo che scorre. È un’espressione proverbiale quella secondo cui il filosofo tenta di spiegarci chi siamo, ma soprattutto da dove veniamo e dove andiamo. Movimento, appunto.
E tuttavia, oggi il movimento non è più una caratteristica connaturata all’essere umano a cui l’essere umano deve opportunamente adattarsi trovando le dovute contromisure. Tutt’altro. Il movimento si è trasformato nella precondizione per avere successo nella vita. Solo se ti muovi, e quanto più ti muovi, puoi sperare di arrivare in cima alla montagna promessa della “riuscita” personale, professionale, finanziaria eccetera eccetera. Un movimento che, da frenetico, si è fatto ossessivo-compulsivo. I tempi lo esigono, si dice. Quando qualcuno mi spiega che “i tempi lo esigono” mi viene sempre voglia di fare la loro conoscenza, perché nessuno mi toglie dalla testa che dietro quei “tempi” ci siano anche delle intelligenze. E molto raffinate. Sia come sia, il problema è un altro. E cioè che, forse, abbiamo persino oltrepassato la soglia oltre la quale il cambiamento non è più solo un’esigenza “naturale”, e addirittura auspicabile per vivere, ma una imposizione “artificiale”, indispensabile per sopravvivere. La locomotiva del movimento che ci è imposto, come biglietto d’ingresso legittimante il nostro “diritto” ad esistere, ha accelerato così tanto da aver cominciato a perdere pezzi sempre più consistenti per strada. E quei pezzi rischiamo di essere noi. Dobbiamo muoverci a iper velocità nell’arco di una giornata lavorativa. Siamo chiamati a fare una innumerevole quantità di cose perché ci hanno dotati di apparecchi così rapidi da essere già vecchi una settimana dopo l’acquisto. E siamo convinti di essere in vantaggio sugli altri grazie a questi accessori. Ma in realtà ne siamo tutti muniti e quindi il privilegio è solo apparente: corriamo semplicemente tutti più in fretta sulla stessa ideale linea di partenza avanzando in schiere compatte, sempre più ansiose e sempre più stressate, senza arrivare mai.
E nell’arco di una vita? Se troviamo un lavoro è probabile che esso sparisca e venga fagocitato da un nuovo mercato, o da un innovativo regolamento, o da una “riforma strutturale”, nel giro di qualche anno, se non di pochi mesi. Se apriamo un negozio, dura di media lo “spazio” di una moda. Per questo, abbiamo una sola possibilità: correre più in fretta ed essere sempre all’erta, vigili, pronti a cambiare. In una parola: spaventati. Come quella famosa gazzella o quel famoso leone che si svegliano la mattina nella savana e si ricordano all’istante che hanno un medesimo, dannato lavoro da fare: muoversi prima che sia troppo tardi. Ecco perché il “cambiamento” ce lo vendono come un valore che – venisse scritta oggi una nuova costituzione dai padroni del vapore – campeggerebbe nell’articolo uno. Il Sistema, la Matrice ha necessità che siamo non già, e non solo, “capaci” di cambiare, ma “vogliosi” di cambiare. Che poi questo generi quasi tutto lo stress che ci logora fino alla morte, al Sistema non gliene frega niente. È questa l’unica cosa che non cambia mai.
Francesco Carraro
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