Si sono finalmente chiuse le olimpiadi invernali di Pyeongchang, in Sud Corea. Dico finalmente perché non ne potevo più di prime pagine delle gazzette sportive inneggianti alle imprese di sport improbabili e mai uditi (tipo sciatori che sparano sdraiati sulla neve o tenzoni dal nome esoterico come short track o snow board cross) come se si trattasse della sovrumana impresa di un Jesse Owens o di un Mark Spitz in tricolore. Ad ogni buon conto, non è di questo che voglio parlarvi, anche perché ho evidentemente torto (e lo so): le discipline sportive minori vanno valorizzate eccetera eccetera e bla bla bla. Mi interessa, invece, affrontare un’altra faccenda connessa alle succitate Olimpiadi e pertinente comunque alla tutela ossessiva delle cosiddette minoranze. Non parlo di sport minori, ma di ‘generi’ minori, laddove per ‘genere’ minore mi riferisco a quello femminile. Badate bene, non ho detto ‘minore’ perché lo sia, ovviamente, ma perché tale viene fatto diventare da un’insopportabile e diffusissima pubblicistica a suon di leccate. Prendiamo le Olimpiadi, per capirci, così facciamo prima. La chiave di lettura delle medaglie d’oro, argento e bronzo conquistate dall’Italia è stata il rosa: miriadi di opinionisti, giornalisti, cronisti collegati a menti unificate ci hanno rovesciato addosso una melassa insopportabile di tributi, omaggi, riconoscimenti, carezze, coccole e bacetti alla trionfale spedizione azzurra, non in quanto azzurra (cioè italiana), ma in quanto rosa (cioè femminile). La questione, peraltro, non è ristretta all’ambito delle competizioni agonistiche, ma riguarda ogni settore del vivere: dalla politica all’economia, dalla cultura allo show business. È sufficiente essere donne per meritare complimenti a prescindere e, di regola, anche il riconoscimento di una superiorità implicita che, però, va esplicitata dal maschio di turno (di solito un cretino immancabilmente pronto a magnificare l’inevitabile eccellenza dell’altra metà del cielo). Che dire? Il fenomeno può forse attribuirsi a una sorta di iper-compensazione rispetto a secoli di subordinazione: la donna si è finalmente liberata dalle pastoie del maschilismo sciovinista e, quindi, ora si prende le sue rivincite. Eppure, è strano come quasi nessuna delle esponenti, anche colte e impegnate e influenti, del gentil sesso non si renda conto di quanto sia ridicolo questo culto post-moderno della femminilità, questa esaltazione di un genere a discapito di un altro. Che, per inciso, va a smentire proprio gli assunti su cui si basa: se detesti la preminenza del maschio, non puoi poi avallare quella del suo opposto. Eppure, non se ne esce, a quanto pare: se sei donna, hai la patente di eroina. Mentre la cronaca e la storia insegnano che di donne incapaci, stupide o cattive (come di uomini incapaci, stupidi o cattivi) è pieno il mondo. Una volta si diceva: chi disse donna disse danno. Oggi le donne dovrebbero essere fiere di uno slogan aggiornato: chi disse donna disse donna. E basta.
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