È possibile concepire un dibattito sull’immigrazione di più ampio respiro e di meno angusta visuale di quello odierno? Il dubbio è legittimo in base a una innegabile constatazione: quando si affronta questo tema, o lo si prende per le corna del suo lato “umanitario”, o si rischia di essere, seduta stante, annoverati nella schiera degli egoisti senza cuore. Si potrebbe allora proporre un diverso approccio, più “laico” e meno ideologico alla questione. Per esempio, dare per assodato il preliminare principio secondo cui il soccorso in mare (a chi incorre in un naufragio) e l’accoglienza a terra (di chi fugge da persecuzioni e conflitti) viene prima di ogni altra considerazione. Sennonché, questa sorta di previo attestato di retta coscienza e di previo proposito di buona condotta, dovrebbe rappresentare solo l’abbrivio della discussione. Invece, in Italia, da sempre esso costituisce il suo punto di approdo “etico”. E ciò produce l’inevitabile effetto inibitore da cui siamo partiti, sul piano dialettico: o aderisci alla linea dell’accoglienza indiscriminata dei migranti (senza se e senza ma) oppure puoi vederti disconosciuta ex ante la dignità stessa di interlocutore. Tuttavia, una volta operata la premessa di cui sopra – e cioè sgombrato il tavolo da ogni dubbio circa le prodromiche, e preliminari, buone intenzioni umanitarie – forse un sensato, e lecito, approfondimento può avere finalmente inizio. Anche alla luce di una circostanza ben precisa: il fenomeno migratorio con cui si confrontano i paesi europei è in gran parte di carattere economico e riguarda flussi di persone le quali, a tutti gli effetti, non cercano “asilo” ma, del tutto legittimamente, ambiscono a più ottimali condizioni di vita. E potrebbe essere compreso e gestito – anche, se non soprattutto, sul piano giuridico – muovendo da due precise “basi”. Primo: al netto del diritto (naturale, universale, e ineludibile) al soccorso di chi annega o fugge, quali sono i contorni (e i limiti) del diritto a “migrare”? Ovverossia del diritto ad andarsene dalla propria terra d’origine per cercare miglior sorte, o diverse opportunità, in un’altra nazione? Secondo: quali sono i diritti (e i doveri) di uno Stato per quanto concerne la difesa dei propri confini? Vale a dire per la salvaguardia di quell’elemento costitutivo (il territorio) di uno Stato degno di questo nome (insieme alle altre due componenti del popolo e della sovranità)? Ebbene, sotto il profilo della “legalità” internazionale ed europea – tra l’inestricabile congerie di leggi, regole, direttive che si sono occupate della faccenda e nel cui ginepraio è più facile perdersi che ritrovarsi – un faro nella notte è rappresentato da due documenti cruciali: la Dichiarazione universale dei diritti umani adottata a Parigi il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 istitutivo dell’Unione europea. L’articolo 13 della dichiarazione ONU così recita: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese”. Com’è del tutto evidente, e anche logico, è riconosciuto il diritto a muoversi entro i confini del proprio paese e anche a lasciarlo, ma non certo quello di essere necessariamente “accolti” in un paese straniero. L’articolo 14 della stessa dichiarazione, invece, fa salvo il sacrosanto, ma ben diverso, diritto (di cui abbiamo dato conto in apertura) di ogni individuo “di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”. Veniamo ora alla seconda pista di riflessione concernente le prerogative e gli obblighi di uno Stato (diciamo pure di uno stato europeo) nella materia in esame. È sufficiente, in proposito, dare uno sguardo al Trattato sull’Unione europea, art. 79 (in materia di regolamentazione dei flussi migratori) dove si legge: “Il presente articolo non incide sul diritto degli Stati membri di determinare il volume di ingresso nel loro territorio dei cittadini di paesi terzi, provenienti da paesi terzi, allo scopo di cercarvi un lavoro dipendente o autonomo”. Dunque, sia l’Italia sia la Francia sia ogni altro paese membro della Ue hanno tutto il diritto (se non addirittura il dovere verso i propri cittadini) di mettere limiti e freni alla immigrazione di tipo economico. E l’Unione ha l’obbligo di sussidiare, in tali incombenti, i singoli stati come confermato dal comma 3 dell’art. 4 dello stesso trattato: “In virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati”. In conclusione, e come volevasi dimostrare, depurando il dibattito dalle pregiudiziali puramente “ideologiche” ed “emotive”, c’è molto che si può dire e fare di giusto, di utile, di legale, in tema di immigrazione, senza per questo abdicare all’umana solidarietà e al rispetto del diritto internazionale.
Francesco Carraro
carraro@francescocarraro.com
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