La decisione del Governo di rottamare il Superbonus introdotto da Conte è stata salutata, dai più, con grida di giubilo: era ora che venisse mandato in soffitta quell’infausto arnese insidiosissimo per le finanze pubbliche. Ma è davvero così? Per comprenderlo, dobbiamo porci un’altra domanda, preliminare e dirimente: cos’è, in definitiva, il famoso centodieci per cento destinato al comparto edilizio? In buona sostanza, è “moneta” fiscale. Quest’ultima, concettualmente, va intesa come un credito nei confronti del fisco concesso (a fronte della presentazione di una fattura per il pagamento di prestazioni in beni o servizi) dallo Stato ai cittadini e da questi ultimi cedibile a terzi. Il contribuente può usarlo in compensazione sulle tasse future oppure farlo circolare. Tale strumento, peraltro, potrebbe in linea teorica non solo essere previsto per un settore ristretto (come l’edilizia) o a fronte di condizioni peculiari o di destinatari privilegiati, ma reso operativo su ben più vasta scala. Il che, se ci pensate, lo rende l’uovo di colombo giusto per recuperare la “mitica” sovranità monetaria perduta entrando nell’area euro. Dunque, la moneta fiscale dovrebbe essere considerata un po’ il “Santo Graal” di tutti i sovranisti a ventiquattro carati (compresi molti sostenitori ed esponenti di Fratelli d’Italia). Infatti, non viola la prerogativa esclusiva della BCE di cui all’articolo 128 del TFUE in materia di emissione monetaria e non genera debito pubblico. La principale critica a tale “rimedio”, come visto e come noto, riguarda la sua presunta natura perversa; nel senso che esso rappresenterebbe un bagno di sangue per le casse dello stato. Ma è bastata la prova dei fatti a smentire questa narrazione. Infatti, buona parte della decantata crescita del Pil sotto il Governo Draghi va imputata proprio al circolo virtuoso innescato dal Superbonus: l’Istituto Nomisma ha calcolato come – a fronte di 38,7 miliardi di crediti d’imposta messi in circolo – si sia generato un indotto (foriero ovviamente di entrate fiscali) di 124,8 miliardi di euro. Il che è facilmente comprensibile: se, e quanto più, la moneta fiscale viene fatta “girare” tra gli operatori economici e i consumatori, tanto più il fisco ne beneficerà in termini di introiti futuri. Insomma, da un lato lo Stato ci rimette, con le iniziali “concessioni”, ma dall’altro le usa come leva per sovracompensare l’iniziale (e solo apparente) buco nel bilancio. Un do ut des mirabile, nel contempo “europeista” e “sovranista”, una formula magica che, ove adeguatamente applicata, potrebbe restituire enormi margini di manovra in materia di spesa pubblica “produttiva”. Perché, allora, improvvisamente, il Governo di centrodestra ha deciso di mettere uno stop? Potrà sembrare incredibile, ma non è colpa di un diktat della Commissione europea o di una nuova norma licenziata dal parlamento di Bruxelles o da quello di Roma, ma di una scelta “contabile” fatta da un istituto di statistica. Eurostat ha editato, il primo febbraio scorso, una edizione aggiornata del Manual on Government Deficit and Debt (MGDD). Secondo la vulgata corrente, nel nuovo testo sarebbe scritto che i crediti di imposta non rimborsabili (quali il Superbonus) dovranno essere contabilizzati come debito e deficit laddove abbiano un’alta probabilità di essere utilizzati. Ergo – per colpa di una precisazione semantica decisa unilateralmente da un consesso tecnocratico di burocrati (absit iniuria verbis) – anche il Superbonus acquisterebbe lo stigma del “peccato”: impatta sul debito e, perciò, va frenato, ridotto, limitato. Anzi, già che ci siamo, va abolito del tutto. Fine, dunque, della storia? Fino a un certo punto, anzi forse proprio per niente. In verità, e a ben vedere, neppure l’innovazione lessicale del nuovo MGDD – se rettamente interpretata – è in grado di depotenziare le salvifiche virtù della moneta fiscale. Infatti, è assai discutibile (per non dire falso) che essa incida sul debito pubblico correttamente considerato secondo i parametri di Maastricht. Perlomeno stando a quanto dichiarato dal Dr. Luca Ascoli (di cui declineremo più sotto qualifica e ruolo) il quale – audito alla Commissione Finanze della Camera dei Deputati il 14 febbraio – ha testualmente dichiarato: “Vorrei sottolineare come, credo impropriamente, si sia in alcuni casi parlato, ultimamente, anche del rischio di un effetto enorme sul debito pubblico nel caso in cui questi crediti d’imposta fossero considerati come pagabili. Vorrei, in questo caso, cogliere l’occasione per ribadire come questo non sia assolutamente il caso e che né nel manuale vi è alcun riferimento ad un aumento del debito né Eurostat ha mai detto o scritto che potrebbe esserci al riguardo un aumento del debito del Governo dovuto a una eventuale pagabilità dei crediti fiscali (…). Non vi è stato fino ad ora nessun impatto sul debito né vi sarà se le cose rimangono così. Lo ribadisco perché credo che sia bene sgombrare il campo da questa possibilità che ultimamente è apparsa su alcuni organi di stampa (…). L’impatto sul deficit dello Stato a lungo termine è esattamente lo stesso”. Ora, chi è Luca Ascoli? Il Direttore delle statistiche sulla finanza pubbliche di Eurostat. Come dire: ipse dixit. Post scriptum: pochi hanno notato che, forse per la prima volta in un documento ufficiale europeo, nella nuova versione del MGDD di Eurostat viene sdoganata la nozione di credito d’imposta “cedibile”. Il che potrebbe aprire una prateria di opportunità per chi avesse la voglia, ma soprattutto la volontà, di vederle e sfruttarle.
Francesco Carraro
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