Questa è la storia del baco. Una fiaba che spiega, se non tutti i casini attuali, una buona parte di essi. Narra di una larva onnivora che ha ingurgitato, e sta digerendo, la nostra Repubblica. La madre di tutte le magagne, se vogliamo, il black hole che risucchia tutto il resto, in primis le prerogative dell’entità statuale che chiamiamo Italia e la supremazia del suo popolo che, a mente dell’articolo uno della Costituzione, dovrebbe esserne il Sovrano.
E’ un baco deforme e cattivo, ma non é nato così. Al contrario, come nelle favole noir, lo è diventato. Immaginate il processo di decrescita di una farfalla, da splendido lepidottero a bruco rivoltante. Da Anakin Skywalker a Darth Fener. La storia è interessante perché ha a che fare con ciò di cui più si parla, ogni giorno, da ogni parte, in ogni sede: i soldi. I soldi, a dispetto di quanto spacciato dalla vulgata corrente (e corrotta), non esistono in natura, ma vengono fabbricati dal nulla. E’ questa la somma potestà di qualsiasi ente con pretese di autonomia e ambizioni di durata. Ed è forse la ragione per cui è il tabù supremo di cui nessun opinion leader, nessuna trasmissione di prima serata, nessun intellettuale parlano mai. Omertà, silenzio, vergogna. Peggio del sesso tra i puritani. Ma se volete ascoltare la storia del baco, dobbiamo violare il tabù. Che recita, più o meno così: se puoi farti i soldi in casa, se hai una tua banca dalle cui rotative escono banconote e dalla cui zecca zampillano monete, allora potrai costruirci sopra tutto il resto, dalla politica monetaria agli investimenti, dalla spesa pubblica alla regolamentazione della tua economia. Se questo potere non ce l’hai o l’hai perso o ti è stato sottratto, allora sei solo il feudo o la colonia di qualcun altro e ti ritrovi a fare i compiti per casa per una Markel o un Van Rompuy. Ma andiamo a incominciare. Per noi italiani il racconto comincia sotto i migliori auspici. Come in tutte le fiabe che si rispettino, c’è persino l’imprimatur di un re. C’era una volta, infatti, il Regio Decreto numero 375 del 12 marzo 1936 con cui la Banca d’Italia venne riconosciuta quale istituto di diritto pubblico. E l’articolo tre del suo statuto, a scanso di equivoci, stabiliva che la maggioranza del capitale doveva appartenere sempre e comunque a enti pubblici. Voleva dire, né più né meno, che, siccome l’Italia ambiva ad essere una nazione sovrana, si arrogava il diritto di possedere la banca che avrebbe stampato la lira, cioè la sua moneta nazionale. Logico e giusto, niente da eccepire. Talmente logico e talmente giusto che, con la nascita della Repubblica, nel 1946, la Banca d’Italia rimase d’Italia davvero. Insomma, era un bene (il più prezioso) del popolo italiano, cioè dei nostri padri che, nel frattempo, erano diventati pure capitani di se stessi (l’imperfetto si impone perché è tutta acqua passata). Poi arrivò l’anno di disgrazia 1992 e accaddero due fatti stupefacenti. Fu varata la legge numero 35/1992 (la cosiddetta Carli-Amato) per la privatizzazione degli istituti di credito. Una conseguenza (ovvia e immaginabile) di questa norma fu che le banche pubbliche, cioè nostre, che possedevano pro quota la banca d’Italia, vennero privatizzate. Così, senza colpo ferire, nell’ignavia generale dei media (forse distratti da tangentopoli), anche il ‘posseduto’ (Bankitalia) assunse la natura dei ‘possidenti’. La trasmutazione si era compiuta. E’ come se, dal giorno alla notte, i Tribunali italiani venissero ceduti alla Coca Cola Company oppure l’esercito alla Microsoft. Insomma, per effetto di quella legge e nel giro di pochi anni, la Banca d’Italia, vale a dire la banca degli italiani, smise di appartenere agli intestatari della sua gloriosa ditta. E venne fatta a pezzi, letteralmente. Vendi oggi, vendi domani, nel giro di poco tempo si arrivò a una situazione che dava questi numeri sconvolgenti: la nostra banca apparteneva per il 30,33% a Intesa San Paolo, per il 22,10% a Unicredit, per il 6,3% a Generali assicurazioni, per il 6,2% a Carisbo. L’unico ente pubblico che manteneva una quota decorosa era l’Inps con un misero 6,2%. Ora, in una democrazia che si rispetti dove i media sono i cani da guardia del sistema c’è da immaginare che sia venuto giù il mondo. E invece no. In un silenzio claustrale, lo scippo della cassa si perpetrò senza che gli italioti ne fossero avvisati. Nel frattempo, in quel dies nigro signanda lapillo (giorno da segnarsi col gessetto nero, per dirla alla latina, non a caso il medesimo della stipula del trattato di Maastricht) che fu il sette febbraio millenovecentonovantadue venne emanata la legge numero 82 con la quale si attribuì alla Banca d’Italia la facoltà di variare il tasso ufficiale di sconto senza doverlo più concordare con il Tesoro. Una legge leggera, di due articoli e tre righe (mamma mia, come sanno essere succinti quando vogliono). Gulp! Stava a significare, in pratica, che gli interessi che lo stato deve promettere quando si fa prestare i soldini dal proprio istituto di emissione non li decideva più lui (cioè il popolo sovrano, cioè noi tramite i rapresentanti eletti), ma quella consorteria di banchieri privati di cui sopra. Occhio perché qui il baco fa un salto di qualità gigantesco. E’ questo l’antenato storico dell’incubo dello spread. I politici si vendettero la nostra cassa, con dentro le nostre rotative, gonfia di nostri denari, senza il nostro consenso a un soggetto terzo. Che non eravamo noi, ma un ente sovra (o trans come direbbero i radicali) nazionale, se si pensa che quegli agglomerati fan capo, a loro volta, a poli bancari stranieri. Capite come persino i più nefasti latrocini della famosa casta contro cui ci hanno indotti a sbavare di rabbia siano furtarelli innocenti rispetto a questo scempio? Ma c’è di peggio. Il tre di gennaio del 2004 la rivista Famiglia Cristiana (visto che i quotidiani più prestigiosi erano in altre faccende affaccendati) si accorse che il re era nudo. E fece una cosa rivoluzionaria in un paese dove la menzogna, la pavidità, la subalternità sono la cifra dell’universo mediatico. Divulgò i soci di Bankitalia e rese di pubblico dominio, almeno a buon pro di chi andava a messa, che la nostra banca, al novantacinque per cento, era privata. Supergulp! A questo punto, smascherata la porcata, direte, lorsignori saranno corsi ai ripari, giusto? Saran pure discoli e manigoldi a intermittenza, ma li paghiamo per governarci. Sono nostri dipendenti. Anche perché c’era una discrasia (come direbbero i giuristi) da sanare. Il regio decreto del 1933 esisteva ancora e ancora si sgolava, poverino, per ricordarci che la Banca d’Italia era un istituto di diritto pubblico (cioè dello stato, cioè del popolo sovrano eccetera eccetera) la cui maggioranza doveva, per statuto, appartenere a istituti pubblici. Ma come fa un istituto pubblico con uno statuto siffatto a essere posseduto da privati? E’ contronatura, oltre a essere un furto bello e buono ai nostri danni. Insomma, c’erano solo due alternative. O lo stato riacquistava la sua banca o cambiavano lo statuto. Ora, giacché la prima era la scelta più ovvia, giusta, sana, dignitosa, democratica (vogliamo o non vogliamo esser padroni dei nostri forzieri, che diamine!) optarono per la seconda. Cambiarono lo statuto. Il Presidente Napolitano sottoscrisse, nel dicembre 2006, su proposta del premier Prodi, il nuovo statuto che, con una strepitosa contorsione dialettica, mantenne la definizione di istituto di diritto pubblico, ma tolse il limite ai privati di possedere a maggioranza la nostra banca nazionale. Nel frattempo, con l’ingresso nell’euro, senza consultare gli italiani, la Repubblica ha rinunciato al proprio potere supremo (quello di battere moneta) delegandolo a un ente terzo, sovranazionale, extraterritoriale, autoimmune, insindacabile. Un autentico leviatano legibus solutus che risponde all’acronimo BCE. Così l’italietta manda i Monti, i Letta, i Renzi in giro per il mondo a omaggiare le agenzie di rating, a lustrar le scarpe ai mercati, a chiedere la questua agli emiri. Cioè a prendere pernacchie. L’ultimo capitolo della saga è quello recentissimo perpetrato con l’aumento di capitale di Bankitalia di cui han beneficiato i soliti noti. Questa è la fine della storia del baco. E del buco senza fondo in cui ci ha precipitati.
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