Sto leggendo una biografia di Kierkegaard e mi è venuta l’idea scandalosa che si tratti del più grande filosofo dopo Kant. Ovviamente è una corbelleria, in primis perché la storia della filosofia non è, per fortuna, una puntata di X Factor dove alla fine vince qualcuno, in secundis perché paragonare un filosofo all’altro è come organizzare una gara tra un lanciatore col peso e un saltatore con l’asta. Detto questo, ripeto la provocazione, correggendola. Forse Soren è il più grande filosofo dopo Kant perché è il meno spendibile in questa epoca storica. E lo è per il semplice fatto di non proporsi come un pensatore che si cura del mondo e delle sue sorti, progressive o meno che siano, magnifiche o meno che siano. Non è un Hegel invasato dall’orgogliosa (e forse legittima) pretesa di aver colto l’intima razionalità processuale del divenire della storia. Non è un Marx, persuaso di poterla cambiare quella storia, con la prassi consapevole e inesorabile di una nuova coscienza di classe. Non è uno qualsiasi di tutti coloro che dopo di lui, e prima di noi, proposero una visione sistematica della matrice, come dire un modo umanamente coraggioso di trovare un senso collettivo al dipanarsi caotico degli eventi che tutto macina e travolge e, con esso, una ipotesi di impegno condiviso e di lotta trasformatrice. Forse perché la lotta trasformatrice è, anche linguisticamente, impregnata di matrice. Soren se ne frega della matrix, parla a sé stesso e quindi interroga ciascuno di noi. Ma non noi in quanto massa, in quanto popolo, in quanto classe, in quanto cittadini o iscritti a un partito o partecipi di un movimento o membri di una comunità. Noi in quanto noi, irriducibili unicità gettate nel mondo senza un apparente perché e, soprattutto, senza un manuale per le istruzioni. Kierkegaard è profondamente inattuale perché ci invita a interrogarci non sul significato di questa epoca e neppure sull’impegno necessario, anzichenò, per raderla al suolo dalle fondamenta e creare un mondo più equo e più umano. Kierkegaard ti guarda in faccia e ti chiede: sei nel posto giusto del tuo cammino? Quali scelte hai fatto? Sei felice di essere dove sei, di trovarti dove ti trovi, di fare ciò che fai, di amare o odiare coloro che ami o odi? In altre parole, tu, proprio tu, che hai preso delle decisioni, quanti sono i rimpianti per quelle non prese, per quelle sbagliate? Leggere Kierkegaard significa essere strappati dal teatro di questa civiltà e dei suoi mediocri attori e registi, di questo tempo così fosco e gravido di oscuri presagi, e scagliati al centro del nostro sé, della nostra specifica, non replicabile, magari insignificante per tutto il resto del mondo (ma così significativa per noi) biografia personale. Soren ci costringe a confrontarci con tutto ciò a cui abbiamo rinunciato, nell’optare per la vita che ci tocca. Lui dice aut aut. Quindi è fuori moda in un periodo dove domina l’et et, cioè la promessa di avere tutte le cose proposte a tutti, indistintamente e contemporaneamente, col rischio di scoprire poi di non esserci trasformati in nessuno di coloro che meritavamo (desideravamo?) di essere.
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