Che rapporto c’è tra una provincia e lo scritto di un avvocato? Che sono tutti e due oggetti destinati a ridurre la complessità del reale. Gli enti locali dovrebbero gestire i bisogni e le attività degli abitanti di un territorio, mentre gli atti di un avvocato dovrebbero sintetizzare un sapere teorico finalizzato al conseguimento di un bene giuridico. In entrambi i casi, pur trattandosi di situazioni completamente diverse e di dimensioni apparentemente non sovrapponibili, il problema è la complessità, cioè la mole di dati da processare per raggiungere l’obiettivo voluto. L’aumento esponenziale della complessità è la caratteristica più tipica dell’Evo Competitivo. Troppe cose da sapere e da evadere in troppo poco tempo. Ci sono i sistemi informatici, dice. Giusto, ma i sistemi informatici, a loro volta, proprio per la velocità esatta e senza scampo che li contraddistingue sono forieri di nuovi adempimenti, di altre incombenze e di ulteriori necessità di smaltire un lavoro in tempi, se possibile, più sincopati ancora. Alzi la mano chi non ha notato che, nell’era più digitalizzata di sempre, il volume della documentazione cartacea ha assunto proporzioni mai viste. È la complessità, bellezza. Sottomettersi e pedalare. Torniamo alle province e agli atti degli avvocati. Ne servirebbero di più o di meno, di province o di enti simil tali? Ovviamente di più, per le ragioni di cui sopra, magari più performanti e meno inefficienti, ma di certo non minori nel numero. La complessità pressa dietro i vetri e non dà tregua. Idem per i concetti giuridici. Il ginepraio di norme e di giurisprudenza si accresce, anno dopo anno, come il fluido di blob e, per starci appresso, e argomentare motivatamente le proprie ragioni, un avvocato ha bisogno di più carta, o di più byte, non del contrario. Eppure, chi comanda la banda va in direzione opposta: taglio alle province (e poi ai comuni, alle regioni, ai consigli di quartiere) e taglio alle righe degli atti degli avvocati. Nell’illusione che, riducendo il numero dei riduttori di complessità (cioè dei centri umani destinati a filtrare e dare senso ai dati), si raggiunga l’agognata semplificazione. Insomma, si fa l’opposto di ciò che sarebbe necessario. Come un guerriero che, per far fronte a un aumento dei nemici, si spogliasse delle armi per combatterli meglio. Ma questo accade per sbaglio o per dolo? Un misto. I cuorcontenti plaudono sempre i tagli perché non colgono la natura onnivora e brutale dell’inarrestabile fenomeno della complessificazione del reale. La loro smania di potare è un peccato veniale, per così dire. Ma c’è pure chi ne gode e il suo è un peccato mortale. Perché ridurre i gangli decentrati, periferici, territoriali, professionali di elaborazione umana dei dati, e comprimere gli spazi (di cemento o di carta) in cui quei gangli si articolano, limita parimenti la possibilità di interferenza dal basso nelle grandi scelte. Derubricando così la massa a un compito di manovalanza sporca, di esecuzione bruta di ordini e riservando a un’elite, sempre più rarefatta, la raffinata questione delle scelte. Cioè, in ultima analisi, l’ars politica delle decisioni su come, e su dove, il mondo deve andare.
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