Il periodo pre elettorale, nell’era delle elezioni inutili, è vissuto all’insegna di una sola parola: abrogazione. Il che è strano, se ci pensate, perché dovrebbe essere il contrario. Il compito precipuo del Parlamento che andremo ad eleggere, come di tutti i parlamenti del mondo, è quello di promulgare le leggi, non di abrogarle. Certo, può anche abrogarle, ma dovrebbe in primo luogo promulgarle. Oggi invece tutti i candidati alle urne sono animati dall’irresistibile pulsione all’abrogazione: Salvini vuole abrogare la Fornero, Berlusconi vuole abrogare il jobs act, Di Maio vuole abrogare tutto il resto. Intendiamoci, non che l’abrogazione di certe leggi sia di per sé sbagliata, anzi. Però, l’insistenza sull’abrogazione anziché sulla promulgazione deve comunque farci riflettere. Tale fenomeno ha un motivo meno evidente, ma più importante, rispetto a quello occasionale dell’eliminazione di una norma antipatica. Oggi i futuri parlamentari parlano soprattutto di abrogazione anziché di promulgazione perché sono stati sostanzialmente privati della possibilità di promulgare cioè di legiferare. Le leggi, oggi, non le fa il Parlamento italiano. Questo ente, dal nome pomposo e antiquato, dalla sede prestigiosa e solenne, è un notaio che annota: traduce cioè in comandi imperativi destinati a noi le riforme strutturali elaborate altrove. Quindi, i parlamentari non è che non vogliono promulgare; non possono. E non potendo promulgare, si concentrano sull’abrogare. Infatti, mentre la gran parte dei dignitosi e civilissimi e sacrosanti progetti di legge concepibili a lume di buon senso non possono essere tradotti in pratica (l’Europa non lo consente oppure i conti pubblici lo vietano), una bella abrogazione non si nega a nessuno. Ovvio, si crea una falla nel sistema, ma poi arrivano le laboriose termiti della ‘burocratura’ comunitaria a colmare la falla con una direttiva o un regolamento che i nostri parlamentari – chini sul tavolino come scolari sul banco dopo l’elezione-ricreazione – provvederanno a tradurre in comandi imperativi. L’abrogazione, però, va via come il pane anche in un altro senso. Appena sentono profumo di elezioni, e quindi appena avvertono il bisogno di legittimarsi agli occhi di Bruxelles e Francoforte, i nostri politici abrogano i loro principi, le loro battaglie e financo se stessi. L’irriducibile antieuropeista ci dice che “non è più tempo di uscire dall’euro”, il gagliardo sovranista che “l’Europa va cambiata da dentro”, il franco populista che “bisogna recuperare l’Europa delle nazioni”. Manca solo che propongano di abrogare il Parlamento. Ma anche lo facessero, e poi lo abrogassero davvero, se ne accorgerebbe qualcuno?
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