La faccenda dei poveri bolognesi ai trenta orari coatti non è una questione politica. E perciò l’aspetto più sorprendente non è la misura, idiota e senza senso in sé e per sé. È piuttosto il fatto che essa possa suscitare un dibattito “politico”. Cioè che tutti – opposizioni e commentatori compresi – debbano stare al gioco degli ideatori della “città al rallentatore” dove a rallentare sembrano soprattutto neuroni e cellule grigie. E debbano, altresì, prendere sul serio, sul piano “politico”, una questione che invece di “politico”, e men che meno di serio, non ha nulla; se non il fatto che impatta in modo devastante sulla vita quotidiana dei poveri cittadini destinati a subirla.
Che poi anche sul concetto di “poveri” (come vittime incolpevoli) ci sarebbe da intendersi. Molti di quelli che oggi sono costretti a circolare sulle automobiline “a pedali” per le vie della città hanno votato proprio quei signori che ora ti levano la patente (o giù di lì) se ti beccano sopra i 50. Promemoria per gli smemorati: sono gli stessi che due anni or sono ti multavano se, sopra i 50 (anni), ti beccavano senza siero. Ma torniamo a bomba. E cioè al fatto che siamo di fronte a una misura priva di qualsiasi risvolto “politico” per quanto è sideralmente lontana dagli elementi basici dell’umano agire politico e cioè: raziocinio, “buona” volontà, pragmatismo e, soprattutto, attenzione occhiuta agli interessi della polis.
Far camminare le vetture a quella lentezza non ha alcun minimo senso logico, né tantomeno pratico sotto nessuno dei due possibili (e sbandierati) motivi: la tutela del pianeta e la salute dei cittadini. Quanto alla prima, l’impatto sul riscaldamento climatico globale (ammesso e non concesso che quest’ultimo sia di origine antropica) è percentualmente pari alla concentrazione delle particelle di sodio in una bottiglia di acqua Lete. Quanto alla riduzione dello smog, degli incidenti e dei rumori, sarebbe anche maggiore abolendo tout court la circolazione e tornando alle carrozze coi cavalli o magari riconvertendo la mobilità cittadina ai risciò tramite importazione delle immancabili “risorse” dal continente indiano. Così da diminuire la deforestazione mentre aumenti l’occupazione (come col Maxibon del tempo che fu: Du gust is megl che uan). Tutto pur evitare il rischio “climate change”, vi direbbe un gretino. E non è escluso che lo facciano: dal rischio al risciò, è un attimo.
Ad ogni buon conto, non è più un fatto di “politica” della città, ma di psicopatologia dell’essere, se non di psichiatria del malessere. E non è neppure colpa (esclusiva) di questo o quel partito, di questo o quell’assessore; anche se quelli “dem”, e di sinistra in genere, sembrano calamite ambulanti per le cazzate. Caduta una giunta o una coalizione se ne formerà una diversa, sconfitto politicamente un sindaco ne salterà fuori un altro, da un’altra parte. Sempre più lenti, specialmente di comprendonio. Tutti a trenta all’ora, in attesa di sdoganare i venti e poi i dieci. Fino a scoprire, magari, che aveva ragione Parmenide: convinti di muoverci, in realtà stiamo tutti fermi. Come il cervello di certi politici: un motore “immobile”, tipo il Dio di Aristotele.
Il tema, dunque e comunque, non è chi adotta queste “politiche” assurde, ipocondriache e controproducenti. È piuttosto come e perché siamo arrivati a un mondo dove tutto “questo” è diventato realmente possibile, e talmente “spendibile” da finire dritto dritto nell’agenda di una amministrazione comunale. Non si può neanche più dar colpa all’Unione europea, che pure di colpe ne ha a iosa, o al processo di esautoramento della politica locale e di de-sovranizzazione degli stati nazionali. Tutte cose verissime, ma qui siamo decisamente “oltre”. Ormai le paranoie autolesioniste non vengono più nemmeno partorite in alto loco, per loschi motivi o sotto schiaffo di qualche ricatto finanziario.
I cittadini hanno imparato, per così dire, a penalizzarsi a chilometro zero, a fustigarsi il deretano senza che nessuno glielo chieda, a mo’ dei frati flagellanti del Medioevo. “Facciamoci del male, ma da soli”: è questo il nuovo slogan dell’homo simplex, epigono di quell’antenato (si parla dell’altro ieri, badate bene) poco sapiens che si fece imporre l’euro e tutto il resto senza fare un fiato. Ergo, dobbiamo riflettere su questa escalation al di fuori dei paradigmi e delle categorie della “politica” in senso stretto e anche in senso lato. Dobbiamo comprendere le ragioni profonde di questo degrado culturale, psicologico e morale, prima che civico e costituzionale, in atto da qualche anno.
Se non lo facciamo, se non capiamo e prendiamo le dovute contromisure, a breve imporranno alla gente di uscire con il casco integrale per camminare o di trattenere il respiro a minuti alterni o di scoreggiare con il filtro. È alle viste una vera e propria mutazione antropologica, un rincoglionimento di massa democraticamente votato e pacificamente accettato da una maggioranza silenziosa di masochisti anonimi. Ma ci viene chiesto di affrontare l’una e l’altro sul piano “politico”.
Ed è questa l’impresa più difficile perché la ragione usa codici interpretativi e comunicativi che alla follia sono preclusi. E dunque, sarà sempre più complicato “spiegare” cose normali, ovvie, razionali a chi si nutre dell’anormale, dell’assurdo e dell’irragionevole. Alla fine, proprio noi siamo gli sventurati abitatori di quel futuro (oggi presente) pre-veduto da Gilbert Keith Chesterton nel libro Eretici (Heretics) del 1906: “Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate”.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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