“Ora et labora”. “Mens sana in corpore sano”. “Ludendo docere”. Sono tre illuminanti massime latine ricolme della saggezza dei secoli andati. Riguardano le dimensioni del lavoro, dello sport, della socialità. Vale a dire le tre aree imprescindibili di una vita sana, equilibrata e “sostenibile”. San Benedetto, forse, coniò la prima con l’insuperabile sintesi del genio.
Nessuna scuola psicologica – né prima né dopo che (nel Novecento) la psicologia fosse “inventata” – ha mai saputo suggerire un programma di vita più efficace e giusto: prega e lavora. E cioè affidati a una potenza superiore e immateriale, coltiva una sguardo spirituale sulle cose, da un lato; applicati a un’attività su cui focalizzare le tue energie concentrate, dall’altro. Due consigli buoni a spazzare via il novanta per cento delle ansie, dei problemi, delle preoccupazioni esistenziali. Perché in grado di insegnarci il “governo” dell’unico “regno” su cui abbiamo davvero dominio e sovranità: la nostra mente.
Il secondo slogan completa il primo e ci ricorda come una mente lucida, attenta, consapevole – e quindi probabilmente (naturalmente) felice – si nutra anche di una corroborante, e regolare, attività fisica. Le endorfine autoprodotte mentre sforziamo le membra impattano sul nostro umore. Gli atleti “dilettanti” conoscono bene questa prodigioso elisir fisiologico e ne sono piacevolmente dipendenti. Infine, il terzo monito: imparare divertendosi. Una visione “religiosa”, un lavoro ben fatto, una mente applicata, un corpo allenato possono molto, ma non tutto. L’uomo è un animale sociale nato per apprendere. La sua palestra naturale è la “scuola” intesa come incontro-confronto-divertimento con gli altri.
Ora, il fatto che (quasi) tutto ciò che v’è da capire – nel campo dell’auto-motivazione, del self help, dei percorsi formativi – è compendiato in dieci-parole-dieci tramandateci dai nostri avi è straordinario. Il fatto che la reazione delle nostre società al Covid stia meticolosamente disgregando proprio questo triplice “farmaco”, lo è ancora di più. Ciò che dovrebbe angustiarci non è solo (e tanto) il Covid, quanto le macerie psicologiche e sociali, individuali e collettive, con cui dovremo misurarci se e quando l’emergenza sarà finita. Per aver privato troppe persone, e troppo a lungo, di lavoro, sport e scuola. Vale a dire degli insostituibili contrafforti di una vita colma di “senso” e degna di essere vissuta. E, soprattutto, per averlo fatto in modo isterico e immotivato pensando di “salvare il presente” da una catastrofe senza capire che si stava condannando il futuro a una catastrofe ben maggiore.
Per finire, un’ultima inquietante ipotesi: e cioè che, una volta debellato il virus, le cose non tornino affatto come prima. Le nuove “regole” sembreranno adatte, in linea generale, anche per meglio gestire un mondo senza Covid. Il lavoro sarà un privilegio da sbrigare in smart, lo sport un lusso da praticare in casa, la scuola un prodotto da fruire on line. Però un rimedio c’è, rigorosamente individuale. Fare della regola benedettina (e degli altri due moniti latini) la bussola della nostra vita. Coltivare nicchie di tempo e di spazio, in cui praticare (eventualmente di frodo) le antiche arti oggi sconsigliate o soppresse. Ci riapproprieremo della dignità “regale” cui ciascuno di noi è chiamato dalla nascita. E sapremo dare, così, un ordine pacifico e appagante al dipanarsi quotidiano del nostro tempo. Saremo un faro di “civiltà” nelle tenebre di un mondo decaduto.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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