C’è una cosa che colpisce nelle reazioni alla morte di Maradona. Ed è il rintocco risonante, reiterato, ossessivo, della parola “dio”. Tutti, senza eccezione, hanno scritto, detto, urlato che Maradona è stato un “dio”: del calcio, nella versione più profana e contenuta; di tutti noi, in quella ai limiti della mistica. Post su facebook, tweet delle celebrità, editoriali sulle gazzette, elzeviri sui giornali della sera: dio, dio, dio. Maradona è stato, anzi è, un dio.
Non c’è livello sociale, piano culturale, versante politico persino, che non abbia attribuito l’epiteto sacro a Diego, o che non gli abbia tributato gli onori, anzi l’adorazione, dovuta agli dei. Ma qui non vogliamo parlare del calciatore autodefinitosi “la mano de dios”, quanto piuttosto del bisogno sotteso al suo processo di divinizzazione. È questo fatto a sorprendere. Non già che Maradona sia “asceso al cielo” per acclamazione popolare. Dopotutto, ci può stare.
Parliamo del più grande fuoriclasse della storia perché ha saputo essere il più umano, a tutto tondo, nel bene e nel male. E la sua stupefacente capacità di risorgere da mille e più cadute nel fango del vizio, del peccato, della perdizione lo ha reso mille volte più amabile di certi campioni perfetti come cyborg, ma finti come figurine e immobili come statue. Quello che, in verità, stupisce in tutta la faccenda “Maradona come dio”, non è la parola “Maradona”, ma la parola “dio”.
E soprattutto la passione, la brama, l’insistenza con cui è stata pronunciata e si è poi diffusa nell’etere, e nel web, alla stregua di un’eco tambureggiante e inestinguibile: dio, dio, dio. Come se un incomprimibile bisogno si affacciasse, furioso, dall’inconscio collettivo e premesse dagli abissi della psiche di ogni persona sulla terra. E non solo, non tanto, il bisogno di deificare Maradona, ma quello assai più arcaico, pre-logico (davvero religioso) di poter salutare il ritorno di Dio tra di noi. Quasi che l’era più secolarizzata di tutti i tempi, quella del laicismo esasperato, della trasmutazione di tutti i valori, del rifiuto della fede, del materialismo imperante, del consumismo dilagante avesse finalmente rotto gli argini.
Una civiltà piena zeppa di individui orfani, spaesati, disorientati, un sistema dove contano solo più i punti del pil, mentre non contano le persone: semmai, si contano e si pesano in ragione di quanto consumano e, se del caso, si “spengono”. In questo contesto desertificato e asfittico, vuoto di “Eterno”, di “Bene”, di “Virtù”, di “Bellezza”, di “Giustizia”, di “Verità”, di “Speranza”, di “Carità”, di “Spirito” e di tutti i valori trascendenti, alti e “altri” – in una parola, “prosciugato” da ogni traccia di dio – improvvisamente Dio ricompare.
Ma non come realtà esistente, perché non ci crede (quasi) più nessuno. Piuttosto, quale rigurgito coatto di una inespressa esigenza, quale sbocco inatteso di una necessità troppo a lungo compressa. Forse è il momento di interrogarsi non tanto sull’impatto planetario della notizia che Maradona è morto, ma sulle conseguenze globali del fatto che è “morto” dio. E su quanto possa reggere un mondo senza un certo tipo di collegamenti; di legami con una realtà sovra-dimensionale non già “desiderata” (sapendo che non c’è) come quando diamo del “dio” a Maradona. Ma, invece, invocata (sapendo che c’è) come quando ci rivolgiamo a Dio, credendoci.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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