Lo scorso 13 giugno, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha emesso una sentenza – nella causa C-22/18 – su un caso apparentemente insignificante, ma dalle implicazioni dirompenti. La vicenda giunta sui banchi della Corte riguardava un italiano, buon atleta amatoriale, residente da anni in Germania. Il nostro concittadino avrebbe voluto partecipare ai campionati nazionali tedeschi di corsa podistica sulla breve e media distanza, pur non essendo in possesso della cittadinanza germanica. Sennonché, una norma del Deutsche Leichtathletikordnung (regolamento tedesco sull’atletica leggera) glielo impediva disponendo quanto segue: «In linea di principio, tutti i campionati sono aperti a tutti gli atleti che abbiano la cittadinanza tedesca e cui sia stato riconosciuto un valido diritto di partecipazione a nome di un’associazione sportiva/associazione tra atleti tedesca».
La norma era stata così modificata nel 2016 introducendo un limite “nazionalistico” che prima non c’era. Non ci trovate niente di strano? In effetti, non c’è niente di strano. Stiamo parlando di campionati “nazionali” tedeschi e il regolamento li riserva, appunto, ai “tedeschi”. Se tali competizioni devono selezionare un campione della Germania, non pare affatto brutto, ma semplicemente logico, che essi siano circoscritti a chi, della Germania, può essere considerato a tutti gli effetti (in primis legali) un cittadino. E tuttavia, l’atleta di cui trattasi non si è dato per vinto e ha ottenuto che il caso approdasse avanti la Corte del Lussemburgo. Quest’ultima gli ha dato ragione statuendo che – dagli articoli 18, 21 e 165 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (c.d. Trattato di Lisbona) – discende un principio ben preciso: un cittadino di uno Stato membro, risiedente da molti anni nel territorio di un diverso Stato membro, deve poter partecipare ai campionati nazionali amatoriali di corsa di quest’ultimo; e deve poter persino accedere alle finali onde ottenere il titolo di campione nazionale. Ovviamente, qui non si tratta di fare le pulci alla singola vicenda processuale del corridore italiano, cui vanno tutti gli auguri per i suoi futuri allori sportivi. Il problema è molto più grande e involge il concetto di “nazionalità”, il senso che vogliamo attribuire a questa parola, la legittimità stessa della categoria di “nazione”. In particolare, in un contesto come quello dell’Europa Unita o, addirittura, di quegli “Stati Uniti d’Europa” di cui molti auspicano la fondazione. La pronuncia in commento è illuminante proprio perché ci fa capire dove siamo diretti, anzi, dove vogliono portarci: verso la rottamazione definitiva di ogni sentimento nazionalistico, sotto il profilo sostanziale, facendogli perdere significato prima, e in primo luogo, sul piano giuridico e formale.
Dobbiamo abituarci a ragionare non più come italiani, francesi o tedeschi, ma come europei. Perciò, un italiano può a buon diritto gareggiare alle finali di atletica della Germania e – va da sé, e per le medesime ragioni – un francese potrà forse disputarsi la maglia da leader nei campionati nazionali di ciclismo in Spagna o un portoghese il podio più alto nella coppa di tuffi dei Paesi Bassi. Per ora siamo a livello di sport amatoriali, poi si vedrà. Il che è una assurdità assoluta, come comprende qualsiasi persona di buon senso. Quantomeno se ci muoviamo in una logica “nazionalistica”: quella secondo cui Italia, Francia, Germania e tutti gli altri paesi membri della Ue hanno ancora ragion d’essere non solo come entità statuali con diritto di rappresentanza e di voto in sede al Consiglio europeo, ma come “comunità nazionali” diverse e distinte le une dalle altre. Solo in tal caso si giustificano kermesse nell’ambito delle quali si assegna un titolo, appunto, “nazionale”. Ma se il concetto di “nazione” è diventato un ferrovecchio della storia, un arnese da buttare per forgiare donne e uomini affratellati da una nuova “identità comune” (quella europea) allora la prospettiva cambia del tutto. In questo caso, in effetti, la sentenza costituisce un primo, significativo, avvertimento per via giudiziaria che può riassumersi così: quel peculiare modo di “pensarci” e di “sentirci” quali appartenenti a una specifica patria – un habitus mentale ed emotivo ben noto – dobbiamo, alla buon’ora, abbandonarlo.
Lo esigono i tempi: il nazionalismo, e le sue moderne declinazioni spregiativamente designate come populismo e sovranismo, sono avvertiti come un pericolo mortale dall’establishment europeista. In questo senso e in prospettiva, la decisione di cui sopra potrebbe rivestire, rispetto al concetto di nazione, un peso pari a quello della celebre sentenza Bosman del 1995 in materia di circolazione dei calciatori. Con la differenza che, relativamente a quest’ultima pronuncia, gli effetti furono soprattutto di carattere economico e commerciale: i campioni del football iniziarono a girare come trottole dalla Serie A alla Bundesliga alla Premier League in cerca di contratti sempre più lucrosi. Nell’ipotesi di cui stiamo parlando, invece, le conseguenze potranno essere esiziali anche su un piano culturale e di costume. Potrebbe trattarsi del primo ciottolo di una slavina finalizzata a seppellire il sentimento patriottico dei singoli popoli europei. A questo punto, facciamo un passo indietro e chiediamoci: la Corte di Giustizia ha davvero deciso “a buon diritto”? Esistono cioè i presupposti giuridici, nei trattati, idonei per giustificare un verdetto come quello in questione? In verità, no.
La Corte cita tre norme (gli artt. 18, 21 e 165 TFUE) che, come avrebbe detto Di Pietro, nulla ci azzeccano con il caso dibattuto. L’articolo 18 vieta “ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità” ed è del tutto ovvio che esso non concerne le ipotesi in cui la nazionalità è il criterio di una discriminazione totalmente “legittima” (come, appunto, le competizioni sportive nazionali, per vocazione dedicate solo ai cittadini di uno specifico Stato). L’articolo 21 prevede il diritto di ogni persona di “circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri”: non certo quello di partecipare a gare riservate esclusivamente ad altri. Infine, l’articolo 165 stabilisce che “l’Unione contribuisce alla promozione dei profili europei dello sport”. Ecco, questa norma è l’unica che potrebbe darci di che pensare. È forse scritto nei trattati che le istanze nazionalistiche confliggono con gli ideali europei? Per fortuna no. L’articolo 165 va letto, infatti, in combinato disposto con un’altra norma che gli europeisti coatti si guardano bene dal menzionare. Ci riferiamo all’articolo 4, comma 2 del Trattato di Maastricht dove si legge testualmente: “L’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale”. Sorpresa: il rispetto delle specificità nazionali è stabilito nel trattato fondativo per eccellenza dell’Unione europea.
Ergo, le “identità nazionali” non solo non costituiscono un rigurgito di egoismo sciovinista, come vorrebbero farci credere taluni, ma rappresentano un presupposto di ciò che l’Ue avrebbe dovuto essere e non è mai diventata. Morale: dobbiamo rileggere e studiare a fondo i trattati se non vogliamo che prevalgano interpretazioni faziose e forzate, come quella della pronuncia succitata. Esse condurrebbero all’abbattimento del pilastro su cui deve reggersi ogni progetto “comunitario”: la fiera rivendicazione del rispetto per l’identità nazionale di ogni popolo europeo.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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