Della vita, della morte e della letteratura: che sono molto più connesse di quanto non si possa, di primo acchito, pensare. Ho rivisto l’Amleto e riascoltato uno dei dubbi più famosi – e abusati (nel senso di essere stati ‘usati’ a tal punto da privarli quasi di senso compiuto) – di tutti i tempi: “Essere o non essere, questo è il problema”. In queste otto parole si condensano le due convinzioni più diffuse su ciò che attende l’uomo una volta varcata la soglia del ‘dopo’. Le potremmo definire, solo per comodità discorsiva (e con tutta l’approssimazione del caso), una ‘occidentale’ e l’altra ‘orientale’.
Per la visione occidentale, e quindi cristiana, dalla morte si esce vivendo in eterno, coscientemente in eterno, cioè con la propria irripetibile individualità biografica, in comunione con Dio e tutti i Santi. Non a caso – a un funerale – la più frequente, e consolatoria, enunciazione pronunciata dal pulpito del celebrante o bisbigliata dai convenuti al commiato, è qualcosa del tipo: ci veglia da lassù; oppure: adesso vive in pace. Ci ‘veglia’ e ‘vive’, proprio lui, il caro estinto, con la sua intatta auto-percezione e con la propria intonsa consapevolezza di sé. Poi c’è la versione ‘orientale’ della faccenda: la morte non segna l’approdo a una vitalità risanata e senza fine, ma piuttosto la dissoluzione dell’ego in qualcos’altro, a scelta: nella superiore, e assorbente, pienezza di Dio, nell’insondabile vastità del tutto, nel multiforme flusso dell’essere. Una prospettiva simile la troviamo anche in quasi tutti gli autori mistici e nei percorsi esoterici divulgati, nel Novecento, da autori come Steiner, Guenon, Schuré o Evola. Riletta da questa prospettiva, la frase di Shakespeare riacquista un po’ del suo sapore perduto: “Essere o non essere, questo è il problema”. E noi, cosa preferiremmo? Essere, nel senso anzidetto ‘occidentale’ del termine, o piuttosto non essere nella surriferita misura ‘orientale’?
D’istinto – ma ci si muove in un terreno massimamente soggettivo e personale – verrebbe da schierarsi per la prima delle due opzioni: essere, essere senz’altro, essere se stessi, essere per sempre. Eppure, a una meditazione più attenta, filtrata da considerazioni meno impulsive, non può sfuggire un’evidenza. L’uomo, da che mondo è mondo, ricerca in tanti modi (leciti o meno, salutari o meno, naturali o meno) la dimenticanza del sé. Ne sono esempi il buon sonno ristoratore (cos’altro è il dormire, se non una intermittente cessazione della coscienza vigile, e quindi una morte sui generis?), le esperienze psichedeliche pesanti, la concentrazione focalizzata su un compito, l’ebbrezza alcolica spinta. In tutti i casi succitati, il soggetto è letteralmente ‘fuori di sé’. In questo tipo di esperienze, vanno inseriti pure il godimento della lettura e il piacere del racconto. Quando sprofondiamo in una trama, rapiti da una storia, cosa accade, in effetti? Evadiamo da noi stessi, siamo tradotti altrove. In definitiva, sperimentiamo un minuto collasso dell’essere. E anche in questa circostanza, la riemersione alla ‘realtà’ (dopo l’immersione nel fantastico) è connotata da un’inquietante nostalgia: ora che siamo tornati ad essere rimpiangiamo ciò che (non) eravamo galleggiando nel non essere.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
1 Commento
Michele
25 Giugno 2018 a 18:33Questo articolo è particolarmente interessante perché evidenzia il nostro io ispirato ad Amleto.
Posso dire che le distnzioni tra “occidentale ” ed “orientale” sono due emisferi ben definiti.
La sua operazione nell’articolo è ben riuscita.
Cordialmente