In occasione dell’anniversario del sequestro Moro si sono sprecati i servizi televisivi su quei giorni drammatici che, come noto, sconvolsero l’Italia, ma poi prevalse la via della fermezza e così la Repubblica uscì dalla notte più buia e trionfò la democrazia e via falsificando. Allora ci siamo chiesti – osservando le più alte cariche dello stato impettite, cotonate o in grisaglia davanti alla stele commemorativa del grande statista e dei cinque poveri cristi martirizzati in via Fani – che cosa avrebbe da dire oggi, se potesse assistere al suo ennesimo funerale, il leader più carismatico e influente della Democrazia Cristiana del dopoguerra. Che cosa direbbe Aldo Moro, nel mese di marzo 2018? Non abbiamo dubbi in proposito. Direbbe esattamente ciò che scrisse verso la fine delle cinquantacinque funeste giornate precedenti l’assassinio mentre i suoi antichi sodali e sedicenti amici della Dc lo rinnegavano, di fatto consegnandolo – con un contorno lacrimevole da ipocriti caimani – a un destino evitabile. Invece di tributargli onori tardivi, si rileggessero le sue lettere dal carcere. Quelle lettere furono allora derubricate, dall’intero arco costituzionale con irrisorie eccezioni, al delirio confuso di un disperato, agli sgorbi paranoidi di una vittima della sindrome di Stoccolma. Si sono oramai accesi tali e tanti riflettori sulle quinte di quella tenebrosa vicenda da renderne accecante la sottesa verità. Ne citiamo solo alcuni, tra migliaia di altri: il libro ‘I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia’ di Ferdinando Imposimato, giudice istruttore del processo (non un complottista della domenica), attesta che il nascondiglio del presidente Dc era noto a pezzi delle istituzioni e alle loro ombrose propaggini, e ciononostante Moro non fu salvato perché Moro ‘doveva’ essere sacrificato; quasi tutti i componenti dell’unità di crisi allestita dal Ministro dell’Interno Cossiga, nell’immediatezza del rapimento, erano membri della loggia P2; decine di appartamenti dello stabile di Via Gradoli (base di Moretti e della Balzerani) appartenevano ai servizi segreti; in via Fani, nel preciso momento in cui Moro veniva prelevato e la sua scorta trucidata, si trovava ‘casualmente’ a transitare un colonnello del Sismi (verità accertata dalla Commissione stragi). E questi sono solo alcuni degli eclatanti, e non smentibili, riscontri di fronte ai quali persino uno scolaro di prima saprebbe tirare la linea e pure le somme. E Moro non era uno scolaro di prima. Rispetto ai guitti telecomandati del teatrino attuale era un uomo eccelso (pur con gli umanissimi limiti umani e politici di ogni uomo e di ogni politico). E da uomo eccelso qual era aveva compreso, senza poter consultare le carte ora a disposizione dei suoi posteri. Ma tra i vertici dello stato prevalse l’infamia pure tra chi ignorava il complotto e si rifiutò di aprire una trattativa che non era solo politicamente doverosa, ma anche eticamente imperativa. Se Aldo potesse tornare, a distanza di quarant’anni, constaterebbe come (a dispetto dell’evidenza) la ‘leggenda’ tramandata sul suo caso prevalga ancora sulla verità rivelabile. Perciò, egli non potrebbe che ripetere a chi ne tradisce la memoria quanto già urlò a chi ne tradì la persona: ricada il mio sangue su di voi.
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