Si è fatta notte, ma c’è chi non dorme nella sede del Partito Democratico. Le ombre oblique del crepuscolo si squagliano in una densa oscurità incollata ai vetri di sezione. Proprio lì – nelle sede dove si raffinano i cervelli più fini e si elaborano le strategie strategiche, nella blindatissima stanza dei bottoni – ferve da ore il dibattito. Spiove una luce fiacca dalle plafoniere al neon e, attorno alle chicchere bianche vuote di caffè, i grossi calibri e i gli alti papaveri si spremono a vicenda le meningi per trovare una quadra. C’è un problema di sintonia con il popolo. A un certo punto, uno sherpa delle retroguardie, di quelli ignorati e sgobboni, si cimenta in una sintesi perché – prima che l’alba sorga sui colli fatali di Roma – il capitano vuole che sorga un’idea. “Allora, per riassumere! Dobbiamo intercettare i bisogni veri della gente, capire ciò che la base ci chiede, andare incontro alle necessità impellenti di milioni di italiani impoveriti dalla crisi”. S’ode un leggero battimani, subito sopito, nell’aria impestata dai vulcani antizanzara. Il boss, che odia gli arrivisti più dei tafani, zittisce all’istante l’incauto e dà la parola al capogruppo della camera, onorevole Fiano, il quale si alza e scioglie un inno al gagliardo slancio riformatore, alla sana spinta riformista, al vigoroso conato innovativo. A un cenno della Guida, anche Fiano si tace e – complice l’alba filtrante dagli scuri – intuisce che è l’ora. C’è da ricapitolare le decisioni già prese, quelle che l’intera penisola attende: “Dunque, compagni e amici, ecco i tre disegni di legge da calendarizzare domani. Primo: introduzione del reato di apologia del disfattismo relativo alla Grande Guerra del ‘15-‘18. Verranno licenziati i docenti sospetti di essersi pronunziati contro le nobili ragioni che indussero il Regno d’Italia a schierarsi con la Triplice Intesa. Secondo: introduzione di una multa di 10.000 euro a danno di tutti i discendenti (da individuarsi con apposite ricerche senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica) di coloro che – in occasione dei referendum per l’annessione al Regno d’Italia tenutisi dal 1861 al 1866 – votarono contro i Savoia. Terzo: reato di apologia del fascismo per chiunque pronunzi o anche solo pensi o anche solo disegni la parola DUCE”. Vibranti applausi nella saletta gremita. Il capo impone un’unica modifica: invertire l’ordine, si parte col manganellare i fascisti. Mozione ratificata all’istante, ma quando il consesso sta per sciogliersi, si leva il garzone di seconda schiera e timidamente abbozza: “Forte, onorevole Fiano! Sono estasiato da ciò che la sua mente produce e di fronte alle vette a cui ci conduce”. Al che – pari a una tempesta tropicale – l’ira di Fiano si abbatte sul tapino: “Parlo arabo, forse? Ho detto che DUCE non si può dire!”. Truci sguardi e mormorii di disapprovazione. Il compagno che sbaglia ammette che si è sbagliato: “Scusatemi. Volevo dire: Forte, onorevole Fiano! Sono estasiato da ciò che la sua mente pro*** e di fronte alle vette a cui ci con***”. Applausi in sala. Poi escono tutti in fila, elettrizzati, ma nessuno dice all’ultimo di spegnere la luce. Che poi magari Fiano s’incazza perché fa rima con duce.
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