Hannah Arendt è un’insigne pensatrice del Novecento: ebrea, allieva di Heidegger, esule in America per scampare alle persecuzioni naziste. La Arendt si trovò, per un singolare destino, a indagare – con l’acume di cui era dotata e con lo spirito critico di qualsiasi cultore delle discipline filosofiche – il perché del Male. O, meglio, il perché di un certo tipo di Male, diciamo il Male Assoluto, inspiegabile, umanamente incomprensibile, tracciato dai binari che portarono dal 1933 ad Auschwitz. La Arendt ebbe modo di perfezionare la propria ricerca giovandosi di una scioccante confessione di prima mano; quella resa da uno zelante carnefice del regime nazista, una mezza figura in verità, rispetto ai titanici demoni che lo sovrastavano: Adolf Eichmann. Hannah, inviata del New Yorker, assistette alle sedute del processo contro il gerarca, dopo che costui fu catturato dagli israeliani e prima che venisse giustiziato, e ne trasse un convincimento: il Male si avvale, per il compiuto perfezionamento dei suoi sforzi, anche dell’inesausto lavorio di milioni di termiti le quali eseguono alla lettera gli ordini impartiti e lo fanno senza discuterli, senza sollevare obiezioni, senza interrogare, senza interrogarsi. Il tutto con neutra, asettica, banale precisione. Proprio il teutonico puntiglio di Eichmann permise a quest’ultimo di portare a termine una missione sconvolgente: oliare le pulegge della macchina dello sterminio senza battere ciglio. Da questa constatazione, la Arendt trasse spunto per il suo capolavoro: ‘La banalità del male’. In rete sono reperibili i video degli interrogatori di Eichmann e, da uno di essi, emerge, abbagliante, la tesi difensiva con cui l’uomo cercò di scampare alla forca e su cui Hannah costruì la propria tesi: io non sapevo, io non capivo, io ricevevo ordini, io non discutevo, io mi sento innocente “come Ponzio Pilato, perché me ne sono lavato le mani”. Il criminale usa proprio queste parole. Ebbene, ci sia consentito un parallelismo – fatte tutte le debite proporzioni e tutti i distinguo storici del caso – tra questo atteggiamento mentale e quello di milioni di persone (elettori, militanti di partito, opinionisti) che oggi assistono compiaciuti, con sovrana ignavia, al processo di de-costruzione delle democrazie europee e di ‘militarizzazione’ politica, in senso autocratico, delle istituzioni sovranazionali. Non c’è dubbio che sia un processo malvagio, nel senso etimologico del termine, cioè votato a pervertire il bene – il benessere, i diritti, la libertà di coscienza e di parola dei popoli – in un ‘male’ di fattori specularmente opposti. Magari un male piccolo (per ora) rispetto a quello abissale germogliato in Germania nel secolo breve. Ma pur sempre un male. Si può forse sostenere che l’esodo, all’apparenza inarrestabile, verso la fine della libertà in Europa si nutre della banale, meccanica, irriflessiva coazione a ripetere di troppe vittime designate. Una massa oceanica di termiti che si ostinano a non vedere, a non capire, a non pensare. E che, laboriosamente, quotidianamente, inesorabilmente portano il proprio contributo alla causa del Male, assecondando l’onda della Storia. Rileggiamo, dunque, il libro della Arendt come antidoto al Ponzio Pilato che è in noi.
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